Opposizione La dinamica che ha portato all’esito delle elezioni liguri è molto evidente, molto meno semplice cercare di capire la lezione che se ne può trarre
Elly Schlein e Giuseppe Conte – Ansa
La dinamica che ha portato all’esito delle elezioni liguri è molto evidente, molto meno semplice cercare di capire la lezione che se ne può trarre. Sul primo aspetto, la diagnosi è facile: il campo delle opposizioni, che a giugno aveva oltre 22mila di vantaggio, si ritrova ora sotto di 8.500 voti. Le defezioni sono quella degli elettori dell’area centrista (dall’8% al 2%) verso Bucci, e soprattutto quella del M5S che aveva il 10,2% e quasi 65 mila voti, e che ottiene ora il 4,6% e 26 mila voti.
Fin qui i numeri: poi cominciano le interpretazioni, soprattutto perciò che riguarda il M5S. Hanno pesato certo anche ragioni contingenti (la resa dei conti finale con Grillo poteva essere rimandata), ma siamo di fronte ad un dato strutturale, che però non costituisce più una giustificazione, ma semmai un’aggravante. Le dimensioni del crollo in Liguria sono del tutto simili a quelle registrate nelle altre tre elezioni regionali tenutesi quest’anno: in Basilicata (dal 25% delle politiche 2022 al 7,7%); in Abruzzo (dal 18,4% al 7%) ed anche in Sardegna, dove pure la candidata M5S ha vinto (dal 21,8% al 7,8%). Eppure, se bisogna credere ai sondaggi, sul piano nazionale il M5S sembra tenere intorno al 10%. Come spiegare questo divario? Non occorre qui richiamare le caratteristiche dell’elettorato del M5S, su cui ci siamo soffermati in altre occasioni. Tutto ancora valido; ma ora si deve aggiungere un altro elemento: si è dimostrata inefficace la strategia perseguita da Conte in questi mesi, fondata su una cauta ridislocazione del M5S sul versante «progressista», ma insieme sulla puntigliosa ricerca di distinzioni e su un continuo stop and go nei rapporti con i possibili alleati.
L’idea era forse che, in tal modo, si potesse stemperare la storica diffidenza degli elettori M5S verso gli altri partiti (e verso il Pd, in specie). Non ha funzionato: gli effetti sono stati quelli di un disorientamento dell’elettorato M5S (ora forse aggravato dall’aggressione di Grillo) e da una percezione di indeterminatezza sulla effettiva collocazione del partito. Nel dubbio, molti elettori si astengono, o si disperdono nelle più varie direzioni (lo si è visto anche in Liguria), specie quando la posta in gioco non viene sentita come rilevante e non può pesare il personale appeal del leader.
Bisogna sperare che la prossima assemblea “costituente” del M5S possa chiarire qualcosa, nell’interesse stesso della costruzione di un’alternativa. Sì, perché oramai dovrebbe essere chiaro che, se il M5S non tiene i suoi elettori, questi non è che andranno di corsa a rifugiarsi nelle braccia accoglienti del Pd o di AVS: troppo profonda la frattura maturata nell’ultimo decennio, per pensare che possa facilmente ricucirsi. È un segno di cecità politica, anche a sinistra, auspicare che il M5S imploda definitivamente: non sarebbe la sinistra a raccoglierne i cocci.
Ma se non ha funzionato la strategia del M5S, non si può nemmeno dire abbia funzionato del tutto quella del Pd: sì, certo, il partito è in ripresa, i voti arrivano, il Pd è un partito robusto, ma in un contesto in cui non ha una coalizione stabile (se si esclude il rapporto con AVS) e in cui quindi debole appare l’indicazione dell’orizzonte politico-strategico. Il tentativo della segretaria è stato quello di rendere credibile un campo di alleanze grazie alla paziente ricerca di convergenze su singole questioni. Ma è stata come una tela di Penelope: appena trovato un tema di accordo, subito dopo scoppiava un qualche incidente, che rovinava ogni messaggio di coesione.
Anche nelle interviste post-elettorali, Schlein insiste su questa linea, indicando cinque punti (sanità, scuola, lavoro, politiche industriali, diritti): tutto giusto, ma cosa non convince di questa impostazione? La sensazione è che non basti mettere una dietro l’altra le varie questioni, e che manchi una visione d’assieme, capace di unire e mobilitare davvero le forze interessate ad un cambiamento. Una proposta di governo, certo, ma fondata su una lettura critica della società italiana e dei suoi nodi strutturali, e su un’azione che sappia individuare, e poi provare a ricomporre, i soggetti sociali (oggi molto frammentati) che in tale proposta si possano riconoscere. La nota dolente, tuttavia, qui è duplice: per poter proporre agli altri una visione che tenga insieme i singoli aspetti programmatici occorre che il Pd, per primo, ne abbia una sua propria coerente (e non è certo solo un problema di oggi), e che scelga cosa dire su molte questioni su cui invece appare ancora forte la reticenza o l’ambiguità: prima fra tutte, la politica internazionale e il disarmo, ma poi anche le politiche istituzionali, o alcune grandi questioni economico-sociali come le riforme fiscali mirate ad una radicale redistribuzione del reddito.
E poi, lo strumento-partito: era stata annunciata l’anno scorso una conferenza organizzativa. Mi sembra sia un po’ sparita dall’orizzonte: sarebbe un errore. E non solo perché, così com’è, la macchina del partito è inadeguata (ad esempio, nell’assicurare un qualche presidio nelle tante aree marginali del paese), ma anche perché non funziona proprio quello che più servirebbe: sedi, canali e procedure di dibattito e di elaborazione politica ed intellettuale. Altrimenti, la visione, la propria e quella da discutere con gli altri, svanisce nel nulla.