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Secondo il ministro degli affari regionali il confine fra le Regioni favorevoli e quelle contrarie all’autonomia differenziata è tracciato dall’efficienza. Le Regioni più efficienti sarebbero in prima linea nella corsa verso l’autonomia differenziata perché più pronte a gestire in proprio funzioni finora di competenza statale e a «metterci la faccia», accorciando virtuosamente la distanza fra cittadini e decisore politico. Le Regioni più inefficienti frenano sull’autonomia differenziata e ne sottolineano i rischi per la coesione nazionale ma si tratta, a ben vedere, solo di un espediente per nascondere la propria incapacità amministrativa. Questa tesi è stata ribadita in più occasioni anche dalla Presidente del Consiglio dei ministri, che definisce l’autonomia differenziata un «percorso per responsabilizzare le classi dirigenti locali sulla spesa e sui servizi».
In realtà l’autonomia differenziata, così come delineata dalla legge Calderoli, non ha nulla a che vedere con efficienza e responsabilità. Per almeno due ordini di ragioni.
In primo luogo per attribuire una patente di efficienza bisogna disporre di dati omogenei sulla spesa sostenuta o sui servizi erogati da ciascuna regione; si deve poi dimostrare chi fa meglio – spendendo meno o offrendo più prestazioni- ma sulla base di un confronto ad armi pari, ossia fra enti con simili dotazioni di risorse umane o di risorse finanziarie. Purtroppo nell’evidenza aneddotica spesso citata dal ministro Calderoli né l’una né l’altra di queste condizioni è rispettata. Quando si sottolinea che la spesa per il personale degli enti locali è più bassa in Veneto che in Campania (nonostante livelli simili di popolazione), si trascura che i dati di bilancio non consentono di effettuare tale confronto: in Veneto i servizi pubblici locali sono spesso esternalizzati e per avere un’idea della dimensione complessiva della spesa occorrerebbe considerare anche i bilanci delle società partecipate. Quando si additano le migrazioni sanitarie come certificazione di incapacità degli amministratori meridionali non si considera che alla cattiva qualità delle prestazioni sanitarie contribuisce anche l’inadeguatezza dei meccanismi di finanziamento della sanità (da sempre penalizzanti per le regioni meridionali).
Ma il nodo principale è che l’assetto finanziario che scaturirà dall’autonomia differenziata non prevede alcun meccanismo di responsabilizzazione per le regioni che otterranno maggiori funzioni. Per finanziare tali funzioni lo Stato cederà quote di gettito sui tributi erariali (Irpef e Iva principalmente), come avviene già per le Regioni a statuto speciale. Si tratta di un’autentica manna del cielo per le regioni più ricche e dinamiche, che disporranno di risorse crescenti nel tempo da spendere liberamente e senza attingere allo sforzo fiscale locale. A poco vale l’attenuante che il gettito ceduto sarà periodicamente riallineato alla spesa: a decidere in che modo saranno Commissioni paritetiche bilaterali ma solo ex post, ossia chiudendo il recinto quando tutti i buoi saranno scappati.
Un’ulteriore garanzia per le regioni ricche di ottenere, con l’autonomia differenziata, una licenza a spendere senza alcuna responsabilità di tassare è la proposta di legare il finanziamento delle funzioni decentrate al costo della vita locale.
È la proposta recentemente avanzata nei circoli a porte chiuse all’apparenza «tecnici» di cui abbiamo già scritto, circoli in cui trovano grande spazio gli interessi delle regioni che più premono per ottenere l’autonomia. L’obiettivo è chiaro: reintrodurre surrettiziamente una differenziazione salariale nel pubblico impiego fra regioni ricche e regioni povere. Con l’aggravante che l’onere della differenziazione sarebbe a carico della fiscalità generale e non dei contribuenti locali.
In poche parole l’autonomia differenziata è un progetto che non incentiva l’efficienza degli amministratori locali ma sottrae al controllo del governo nazionale una fetta molto rilevante del bilancio pubblico. È un progetto incompatibile con l’impegno a contenere nei prossimi anni la dinamica della spesa pubblica entro limiti molto stringenti, come richiesto dalle regole europee. A ben guardare la retorica dell’efficienza nella competizione fra regioni ricche e regioni povere assume la stessa funzione che la «tirannia del merito» (dall’omonimo saggio di M. J. Sandel) svolge nella lotta fra vincitori e perdenti nelle società neoliberiste: legittimare le disuguaglianze, attribuendone la responsabilità morale a chi è in una posizione di svantaggio