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I voti a favore sono stati 109, quelli dei senatori della maggioranza; 77 i contrari, di tutte le opposizioni.

 

Il Senato ha dunque approvato in prima lettura la riforma costituzionale che introduce nel nostro ordinamento il principio dell’elezione diretta del premier: ieri pomeriggio i voti a favore sono stati 109, quelli dei senatori della maggioranza; 77 i contrari, i voti di tutte le opposizioni, comprese quelle che non sono scese in piazza. Un elemento questo significativo anche nella lettura istituzionale della riforma. Il ddl Casellati passa ora all’esame della Camera.

NONOSTANTE IL DIBATTITO parlamentare sul premierato duri da oltre sei mesi, e nonostante il testo del ddl Casellati sia cambiato per quattro volte, non cessa lo stupore per questa riforma. Nata – come ha detto enfaticamente ancora ieri Giorgia Meloni – per assicurare stabilità all’esecutivo attraverso l’elezione diretta, essa in realtà tace su questo punto essenziale, enunciandone solo il principio (all’articolo 5), mentre costituzionalizza tutti i possibili meccanismi politici che destabilizzano gli esecutivi (all’articolo 7).

CERTAMENTE può essere attribuita all’imperizia della ministra Casellati parte della responsabilità, ma rimane la benedizione della premier Meloni all’operazione nel suo complesso che, oltretutto, viene messa in capo a Fdi nell’ambito del patto tra i tre partiti di governo. Entrare nel merito della riforma aiuta a capire la mobilitazione che sta suscitando fuori dai Palazzi, non solo da parte dei partiti d’opposizione, ma anche di associazioni, parti sociali e anche costituzionalisti: oltre 100 di loro, di tutti gli indirizzi culturali e tra i più autorevoli in Italia, hanno aderito ieri all’appello di Articolo 21 contro il ddl Casellati.

IL TESTO APPROVATO dal Senato prevede che il Presidente del Consiglio verrà eletto a suffragio universale e diretto dai cittadini italiani e che la sua elezione avverrà «contestualmente» a quella di Camera e Senato, in modo da «assicurare» al vincitore la maggioranza in entrambe i rami del Parlamento. Come verranno eletti, sia il premier, sia il Parlamento, non è dato di sapere: la riforma tace. Con il 50% dei voti, come tutti i capi del governo a elezione diretta, da Macron a Milei? No, a mezza bocca si parla di una soglia attorno al 40%. Alla luce dell’astensionismo al 50% un premier di minoranza (in pratica basterà il 20% degli elettori) avrà in mano non solo le redini del governo, ma anche quelle del Parlamento, che sarà eletto «a traino» e quindi sarà l’estensione di quei comitati elettorali del premier che sono diventati gli attuali partiti personali. E avendo a quel punto in mano anche l’elezione del presidente della Repubblica, dei membri laici del Csm e di cinque giudici costituzionali. «In 20 mesi di governo – ha detto in Aula il capogruppo del Pd, Francesco Boccia – avete fatto 65 decreti legge con 50 voti di fiducia. Non vi basta questo strapotere?». Evidentemente no, evidentemente il modello di Repubblica a cui si mira è quello in cui il governo controllo anche i contrappesi e gli istituti di garanzia. La riforma, ha tuonato Meloni «restituirà ai cittadini il diritto di scegliere da chi essere governati». Meglio sarebbe stato dire «da chi essere comandati».

IN COMPENSO il ddl Casellati costituzionalizza tutti i possibili meccanismi di instabilità. Ad inizio legislatura il premier eletto deve ottenere la fiducia dal Parlamento, ma può essere bocciato una prima volta avendo in tasca una seconda chance. Un modo per incentivare sin dall’inizio della legislatura un braccio di farro tra partiti sulla squadra di governo e perfino a spingere il premier eletto a fare «scouting» per cercare in Parlamento altre maggioranze. E ancora: il premier eletto, in caso di crisi parlamentare o extraparlamentare, può dimettersi e ottenere un nuovo incarico dal Presidente della Repubblica anche cambiando la maggioranza.

COME SI PIEGA questa follia? È figlia del compromesso tra Fdi e Lega, con quest’ultima che è la grande vincitrice, alla luce dell’imminente approvazione definitiva dell’Autonomia differenziata: «A chi ha parlato di scambio tra le riforme, dico che non si chiama scambio ma accordo politico tra forze di maggioranza, che hanno diritto di farlo e che anzi la tengono unita» ha detto il leghista Massimiliano Romeo. Insomma tutto ciò che è estraneo a quel patto è stato e sarà rifiutato, dal soccorso di Italia viva e Matteo Renzi respinto al mittente, al tentativo di chi spera ancora di migliorare il testo alla Camera.