Nato dalla collaborazione fra Struttura commissariale di Governo, Autorità di bacino distrettuale del fiume Po, Regione
Le aree alluvionate viste dal saltellite Copernicus
Dare più spazio ai fiumi, potenziando il contenimento delle piene a monte, “arretrando” le attuali arginature e rendendole resistenti alla tracimazione. Elaborare e attuarestrategie innovative per i fenomeni di dissesto dei versanti, visto l’elevato numero delle frane (oltre 80mila), in gran parte di nuova attivazione in seguito agli eventi dello scorso maggio. Ancora: misure temporanee di salvaguardia per impedire l’aumento del carico urbanistico, escludendo nuove costruzioni nelle aree allagate, o a rischio frana, al di fuori del perimetro urbanizzato, in attesa dell’aggiornamento dei Piani di Bacino.
Sono, in estrema sintesi, alcune delle linee di indirizzo contenute nel Piano speciale preliminare, documento previsto dal decreto per fronteggiare l’emergenza provocata dagli eventi alluvionali del maggio 2023, convertito nella legge 100/2023. La norma prevede la predisposizione di cinque Piani speciali, tematici; questo, relativo agli interventi sulle situazioni di dissesto idrogeologico, è il driver di tutti gli altri.
La relazione del Piano è stata coordinata dall’Autorità di bacino distrettuale del fiume Po, in collaborazione con la Regione Emilia-Romagna, nell’ambito del gruppo di lavoro presieduto dalla struttura di supporto al Commissario straordinario alla ricostruzione e composto, tra gli altri, dalle autorità idrauliche, Università, Upi, Anci, Città metropolitana di Bologna, Ispra, Carabinieri forestali. La Giunta regionale dell’Emilia-Romagna ha preso atto, lunedì 22 aprile, del Piano adottato dal Commissario straordinario alla Ricostruzione, così come asserito in sede di Cabina di coordinamento e ha condiviso le misure temporanee di salvaguardia adottate dalla competente Autorità di bacino distrettuale. Oggi la presentazione del documento preliminare all’Assemblea legislativa, in Commissione Territorio, Ambiente, Mobilità.
Il Piano speciale preliminare contiene le prime strategie di intervento e gli indirizzi di pianificazione. Sarà aggiornato e completato a giugno 2024 quando vedrà la luce il Piano speciale definitivo che comprenderà anche l’elenco delle opere e degli interventi strutturali e non strutturali. La Regione, inoltre, avvierà a breve un percorso di coinvolgimento attivo delle comunità che sono state interessate dall’alluvione, cittadini, mondo produttivo e amministrazioni. Percorso che punta a una condivisione delle informazioni contenute nei Piani speciali e a un ascolto attivo delle istanze provenienti dai territori.
Dall’1 al 3 maggio 2023 il territorio dell’Emilia-Romagna è stato interessato da eventi idro-meteorologici di eccezionale intensità che hanno determinato gravi criticità particolarmente nelle province di Forlì-Cesena, Ravenna, Bologna, Modena e Reggio Emilia. Nei giorni 16-17 maggio si è verificato un ulteriore evento meteorologico estremamente intenso che, oltre a interessare i territori delle province romagnole indicate e di quella di Bologna, ha colpito pesantemente anche il territorio della provincia di Rimini. Questi eventi hanno provocato frane ed esondazioni con conseguente isolamento di molte località, evacuazione di numerose famiglie dalle loro abitazioni, gravi danni a infrastrutture lineari, aziende agricole, edifici pubblici e privati, alle opere di difesa idraulica e alla rete dei servizi essenziali.
La gravità degli eventi ha fin da subito evidenziato la necessità di un cambio di paradigma: la pianificazione, così come la programmazione e attuazione degli interventi, da quelli urgenti finanziati dalle ordinanze commissariali a quelli strutturali e non strutturali maggiormente complessi, avrà bisogno di un approccio graduale che si dovrà fondare su un aggiornamento progressivo delle conoscenze idrologiche, idrauliche, geologiche e geomorfologiche e sulla definizione e condivisione delle strategie di difesa e di nuovo assetto del territorio da applicare nelle aree colpite. Di qui, la necessità di elaborare un Piano speciale.
Membri del Consiglio di Sicurezza dell'ONU prima della votazione di lunedì 25 marzo a New York (REUTERS/ Andrew Kelly)
Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha approvato lunedì la sua prima risoluzione per chiedere un immediato cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. La risoluzione è stata approvata dopo mesi in cui i veti incrociati nel Consiglio, soprattutto di Stati Uniti, Russia e Cina, avevano bloccato qualsiasi decisione al riguardo.
La risoluzione ha ottenuto 14 voti a favore, tra cui quelli dei governi di Cina e Russia. La cosa più rilevante è stata però l’astensione degli Stati Uniti, il cui appoggio a Israele si era già indebolito nelle ultime settimane (tutti e tre i paesi, insieme a Regno Unito e Francia, sono membri permanenti del Consiglio di Sicurezza con potere di veto: significa che possono bloccare qualsiasi risoluzione).
A più di cinque mesi dall’inizio della guerra nella Striscia di Gaza, gli Stati Uniti hanno infatti cominciato a criticare con sempre maggior forza il modo in cui Israele sta conducendo la guerra, e soprattutto l’operato del primo ministro Benjamin Netanyahu, considerato uno dei principali ostacoli al raggiungimento di un cessate il fuoco nella Striscia. È una cosa rilevante perché fino a poco tempo fa il governo statunitense aveva sostenuto in maniera quasi incondizionata il governo israeliano.
Il Consiglio di Sicurezza è l’unico organo internazionale che può prendere decisioni che teoricamente sono vincolanti per tutti i paesi membri, Israele compreso. L’ufficio di Netanyahu ha criticato l’approvazione della risoluzione e in particolare l’astensione degli Stati Uniti, sostenendo che in questo modo verranno compromessi gli sforzi di Israele per liberare gli ostaggi trattenuti da Hamas. L’ufficio del primo ministro israeliano ha anche fatto sapere di aver cancellato la visita di una delegazione israeliana prevista per i prossimi giorni a Washington DC, negli Stati Uniti.
– Leggi anche: Dell’attacco di Israele all’ospedale al Shifa di Gaza si sa pochissimo
La risoluzione prevede un cessate il fuoco per il periodo del Ramadan, la ricorrenza più importante per le comunità musulmane nel mondo, che è cominciato tra domenica 10 e lunedì 11 marzo e si concluderà tra il 9 e il 10 aprile. Prevede anche la liberazione immediata di tutti gli ostaggi tenuti da Hamas nella Striscia di Gaza e invita Israele a fare di più per facilitare l’ingresso di aiuti umanitari nel territorio, dove ormai da settimane la crisi umanitaria in corso a causa della guerra è gravissima.
La risoluzione in teoria è vincolante: significa che, almeno sulla carta, Israele è obbligato a rispettarla. È comunque difficile che il governo di Netanyahu, che finora ha resistito a qualsiasi pressione per ridurre l’intensità della guerra a Gaza, possa effettivamente rispettarla.
Il testo era stato presentato dai dieci membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza (che ovviamente non hanno potere di veto), dopo che venerdì ne era stata respinta una proposta dagli Stati Uniti che chiedeva un «cessate il fuoco immediato e duraturo». In precedenza il governo americano aveva posto il veto per tre volte sulla richiesta di un cessate il fuoco umanitario, immediato e definitivo nella Striscia di Gaza. Secondo alcuni diplomatici sentiti dal New York Times, gli Stati Uniti avevano proposto un emendamento al testo definitivo per sostituire «cessate il fuoco permanente» con «cessate il fuoco duraturo»: una formulazione più vaga e meno impegnativa per Israele, che però non è passata.
Le tre volte precedenti gli Stati Uniti si erano opposti a simili risoluzioni sostenendo che le richieste non rispettassero il diritto di Israele di difendersi. Lunedì la rappresentante degli Stati Uniti all’ONU, Linda Thomas-Greenfield, ha detto che quella approvata è in linea con gli sforzi diplomatici portati avanti dagli Stati Uniti, che però a suo dire si sono astenuti perché non in accordo con altre parti del testo: tra queste ci sarebbe il fatto che nella decisione non vengono condannati esplicitamente gli attacchi compiuti da Hamas lo scorso 7 ottobre
BUSINESS ARMATO. L'inchiesta di Altraeconomia: 817mila euro in armamenti dopo il 7 ottobre, nonostante le rassicurazioni di Tajani e Crosetto. A fermare le nuove licenze è l'Uama, non il governo. Intanto la legge 185/90 sull’export è a rischio
Il ministro degli esteri Antonio Tajani - Ansa
Due giorni fa un’inchiesta, iniziata a ottobre, di Altraeconomia ha dimostrato tramite dati Istat come le armi italiane continuino a essere vendute a Israele. Ciò accade nonostante i tweet del ministro Crosetto secondo cui l’Italia avrebbe interrotto il commercio militare verso Tel Aviv dopo il 7 ottobre, come riportato anche in parlamento.
La realtà, come racconta Duccio Facchini, autore dell’inchiesta, è ben diversa: tra ottobre e novembre 2023 l’Italia ha esportato «armi e munizioni» verso Israele per un valore di 817.536 euro: 233.025 euro a ottobre e 584.511 a novembre, come riportano le statistiche Istat aggiornate.
LE PROTESTE dei portuali e dei relativi sindacati già avevano sollevato il dubbio mesi fa, quando dalle coste italiane diversi carichi erano stati contestati dai blocchi e dalle manifestazioni a Salerno, Ravenna e Genova su iniziativa di gruppi pro-Palestina e SI Cobas.
«Disarmare Israele», corteo davanti alla fiera delle armi a Verona
Già da mesi Rete italiana Pace e Disarmo ha evidenziato come il disegno di legge di iniziativa governativa 855 in discussione al Senato minacci pesantemente i meccanismi di controllo dell’export di «materiali d’armamento», in modifica alla precedente legge 185/90, indebolendo i meccanismi di trasparenza, i processi decisionali e di controllo afferenti all’industria delle armi.
«Ma come è possibile pensare che per un prodotto come le armi non si debbano tenere in considerazione gli impatti devastanti che procurano? Già nella situazione attuale sappiamo bene che non sempre le autorizzazioni rilasciate sono state in linea con i criteri della Legge 185/90 e dei trattati internazionali, se il ddl 855 dovesse passare la situazione peggiorerebbe, in particolare sulla questione degli intrecci tra finanza e produzione di armamenti» commenta Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio Opal e Ripd.
Interessante osservare come il rilascio delle forniture militari a Israele sia stato rallentato non dal governo ma dall’ente preposto al rilascio delle licenze nuove all’esportazione di armamenti, la Uama. Dal 7 ottobre, a quanto si è potuto evincere dal dibattito parlamentare, pare che Uama non rilasci più nuove licenze per chi intenda commerciare verso Israele, ma la decisione non ha effetto retroattivo. Non può sospendere l’integralità dell’invio di materiale militare né sospendere i contratti già firmati.
CONTINUA Beretta: «Le dichiarazioni dei ministri Crosetto e Tajani circa la sospensione delle forniture di materiali militari a Israele sembrano rispondere più a una diatriba politica con le opposizioni che a una scelta operata dal governo Meloni. Non è un caso che entrambi i ministri abbiano evidenziato che sia stata compiuta da Uama. Per sospendere le licenze rilasciate negli anni scorsi, e quindi per sospendere l’invio di tutti i materiali militari a Israele, è necessario un decreto ministeriale di cui non a oggi c’è traccia. Ma c’è di più: il disegno di legge del governo Meloni (Atto Senato 855) che è già stato approvato al Senato, intende sottoporre al veto del governo proprio i divieti che l’autorità nazionale Uama decide sulla base delle norme nazionali sul commercio di armi».
Nonostante al nostro paese sia costituzionalmente precluso il sostegno militare a un paese belligerante, lo status di eccezione che contraddistingue la politica del governo Meloni nei confronti di Israele segna un altro traguardo, rendendoci complici militari di un genocidio. Senza menzionare i negoziati già avviati con Tel Aviv per l’implicazione di Eni nella gestione delle risorse minerarie palestinesi di Gaza, territorio occupato e assediato in contrarietà al diritto internazionale. Sullo sfondo però è una chiara ridefinizione del rapporto al commercio delle armi che va profilandosi, con conseguenze che fatichiamo ancora a immaginare
LAVORO. Via libera da parte della Assemblea generale della Cgil all’iter per la definizione di referendum abrogativi su tre temi: licenziamenti individuali, precarietà e appalti. I quesiti dovrebbero essere depositati a […]
Una manifestazione organizzata dalla Cgil a Roma nel 2021 - foto Ansa
Via libera da parte della Assemblea generale della Cgil all’iter per la definizione di referendum abrogativi su tre temi: licenziamenti individuali, precarietà e appalti. I quesiti dovrebbero essere depositati a marzo per raccogliere le 500 mila firme in estate e votare a primavera 2025.
In più il parlamentino di Corso Italia ha dato mandato alla segretaria di procedere nella battaglia dei referendum confermativi su Autonomia differenziata e premierato, assieme alla Via maestra.
Obiettivo: «cambiare le leggi sbagliate e proporre un altro modello sociale e di sviluppo, che metta al centro la dignità e la libertà delle persone». Via libera anche a una legge di iniziativa popolare sulla rappresentanza, da proporre anche alla Uil.
ISOLA FELICE. I dati dello spoglio tardano fino a notte. Ma M5S e Pd accusano «Testa a testa costruito ad arte per minimizzare la sconfitta»
Sembra che Alessandra Todde ce l’abbia fatta. La candidata sostenuta dall’alleanza Pd-M5S potrebbe essere la nuova presidente della Regione Sardegna. La prima presidente donna nella storia dell’autonomia regionale sarda. Diciamo «sembra» e «potrebbe» perché al momento in cui scriviamo, i dati definitivi non sono ancora noti, a causa di un’incredibile lentezza della macchina organizzativa che la Regione ha approntato per raccogliere e diffondere i risultati.
IL FATTO è (da qui la cautela) che le cifre disponibili alle 22.30 sono riferibili solo a 1.642 sezioni scrutinate su 1844, pari a circa il 90% dei votanti. Quindi un quadro incompleto, con Todde al 45,3, Truzzu al 45% Soru all’8,7% (quindi fuori dal consiglio regionale perché non supera lo sbarramento del 10% imposto dalla legge elettorale sarda alle coalizioni) e la l’indipendentista Lucia Chessa all’1 %. Eppure il centrosinistra nella tarda serata paresicuro di vincere, tanto che per sostenere Todde nel rush finale e festeggiare la vittoria, Elly Schlein e Giuseppe Conte si sono infilati nello stesso aereo di linea e sono volati a Cagliari. Meloni, invece, già dalla tarda mattinata ha convocato d’urgenza a Palazzo Chigi Tajani e Salvini. Aria di tempesta.
PER SPIEGARE perché Todde e i suoi alleati sono sicuri di farcela, bisogna fare la cronaca della giornata. Gli scrutatori hanno cominciato a contare le schede alle 7 del mattino, dopo che dalla domenica elettorale era emerso un primo dato, quello sulla percentuale dei votanti, che ha registrato un 1,5% in meno rispetto alle regionali del 2019: il 52,4%, contro il 53,09% del 2019. Da subito si è capito che il sistema di rilevamento e di diffusione dei dati sarebbe stato lentissimo. Niente cifre dal Viminale, perché il data base del ministero, abbastanza sorprendentemente in concomitanza con una scadenza elettorale, era
Il vicepresidente della Commissione Europea Valdis Dombrovskis e il commissario Ue per l’economia Paolo Gentiloni hanno sposato l’ipotesi di emettere «Eurobond» per finanziare il piano di riarmo da 100 miliardi di euro «all’anno». È un altro passo in avanti nella trasformazione dell’Unione Europea in un aggregato di Stati-Nazione che combattono sia sui mercati globali sia nelle nuove guerre portate dall’attuale frammentazione globale.
NON È DETTO che gli «Eurobond» siano gli strumenti prescelti per finanziare il warfare continentale. Ma la direzione sembra essere stata tracciata. Per Gentiloni dovrebbero affiancare altri strumenti come quello europeo contro la disoccupazione, lo «Sure» già sperimentato durante la pandemia. Ma il meccanismo dovrebbe essere lo stesso. A suo avviso il «Next Generation EU» – cioé il fondo che finanzia il «Pnrr» italiano – «si è dimostrato che la Commissione può andare sui mercati finanziari , conservando la sua tripla A, diventando un attore importante nel mercato dei capitali».
IN UN’INTERVISTA ieri al Corsera il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel ha detto che «lo European Peace Facility – ha detto Michel – è uno strumento visionario, è stato molto utile nella prima fase, ha incoraggiato l’industria europea a produrre di più, ha permesso un meccanismo di solidarietà per la sostituzione degli stock». Ora, ad avviso di Michel, si tratta di strutturare investimenti e coordinamento affinché le industrie europee non si facciano concorrenza. C’è una proposta di Thierry Breton, commissario europeo per il mercato interno e i servizi della commissione von der Leyen, che vorrebbe sviluppare un «mercato unico della difesa». L’uso della Banca Europea degli investimenti (Bei) potrebbe essere inoltre ripensato in questa prospettiva. Per Michel la questione «sarà risolta prima del prossimo Consiglio europeo, ma in caso contrario ne parleremo». In queste uscite pesano, tra l’altro, le avvisaglie di un cambiamento politico di rilievo negli Stati Uniti: il paventato ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump dal quale si attende un cambiamento deciso della strategia della Nato e del finanziamento della guerra in Ucraina.
IN ITALIA GLI EUROBOND per le armi sono stati considerati «una brutta notizia, questi soldi vadano alla transizione ecologica» dall’ex ministro Andrea Orlando (Pd) collega di partito dell’ex premier Gentiloni- «I tedeschi – ha aggiunto Orlando – sono stati contrari e la Von der Leyen era contraria, per finanziare l’industria militare mentre un anno fa, durante il Covid e nei mesi precedenti, ragionavamo di Eurobond per finanziare la transizione ecologica». «Ursula Von Der Leyen vuole abbandonare il “Green Deal” a favore di un “Defence Deal” e usarlo per la sua campagna elettorale europea – sostengono i Cinque Stelle – È una folle corsa al riarmo che serve solo ad arricchire l’industria bellica la cui lobby a Bruxelles è ancora più potente di quella romana come risulta chiaro dalla folle decisione di scorporare le spese militari dagli austeri vincoli di bilancio del nuovo Patto di Stabilità». Anche i Cinque Stelle non si sono detti contrari all’idea di «difesa europea» ma, a loro avviso, «non deve diventare il pretesto per aumentare le spese militari, ma semmai per diminuirle: nel 2024 i Paesi Ue, secondo le ultime stime Nato, arriveranno a spendere circa 400 miliardi di euro l’anno».
«MELONI HA CHIESTO di scorporare dal patto di stabilità non la sanità ma le spese per la difesa – ha ricordato Mariolina Castellone (M5S), vicepresidente del Senato – Eurobond per la sanità e, sul fronte interno, Btp salute. Questo sì che servirebbe all’Italia».
UN ‘ANALISI dei dati può essere utile per capire in che modo i “100 mmiliardi all’anno” di cui discutono tra Commissione e Consiglie Europeo potrebbero incidere sulla spesa militare effettiva in Europa. Quella aggregata dei paesi europei della NATO ha raggiunto i 346 miliardi di dollari nel 2022 ed è aumentata dell’1,9% in termini reali rispetto al 2021 e del 29,4% rispetto al punto di minimo del 2014. Questo andamento si è intensificato in coincidenza con la guerra russa in Ucraina. Oggi l’UE destina almeno il 2% del suo bilancio a scopi militari. Lo fa finanziando l’industria degli armamenti attraverso il Fondo europeo per la difesa (European Defence Fund EDF) e il Fondo per le nuove munizioni (ASAP).
QUESTI FONDI sono gestiti dal Commissario responsabile del mercato interno e dell’industria. Insomma fucili, pistole, missili, cacciabombardieri e altre armi letali sono trattati come chips, automobili o prosciutti. E’ la logica del complesso militare-industriale applicato alle regole del “mercato interno”. Ciò comporta sia l’esigenza del coordinamento della produzione tra industrie nazionali concorrenti. E’ il consueto, miserabile, problema del capitalismo armato: finanziamenti pubblici per garantire la competitività dell’industria militare. Questa “competitività” è considerata la condizione dello “sviluppo”. E lo “sviluppo” viene garantito dalla “sicurezza”. E’ il paradigma della nuova globalizzazione armata.
GIA’ ORA due terzi di questi soldi vanno a 4 Paesi: Francia, Italia, Spagna e Germania. In questi paesi le principali aziende hanno aumentato le vendite di armi dell’1,5% per un totale di 95,8 miliardi di euro e i loro profitti dell’11,2% nel 2022. Cento miliardi di euro all’anno in più potrebbero essere un altro affare