Vaticano Le sue parole e i suoi atti erano di segno opposto rispetto alla visione militante di una chiesa occidentalista di cui alcuni auspicano il ritorno in Vaticano
Papa Francesco in Messico – AP
Nel 1995 sul trono di Pietro sedeva Giovanni Paolo II, un pontefice di cui tanti sentono oggi la mancanza. La sua era una chiesa trionfante, che veniva celebrata dagli ammiratori (non necessariamente credenti).
Convinti, questi ammiratori, che la chiesa di Wojtyla si fosse liberata dalle secche del dubbio e dell’incertezza degli anni Sessanta e Settanta, per proiettarsi nel futuro trascinata dall’onda della storia. Un papa cold warrior, che aveva dato un contributo non secondario al crollo del socialismo reale, e custodiva il proprio successo politico come il segno della realizzazione di un disegno divino.
In quello stesso anno, viene pubblicato un testo peculiare. Rileggendolo a distanza di decenni, e all’indomani della scomparsa di un papa molto diverso da Giovanni Paolo II, come è stato Francesco, colpisce questo passo: «… bisogna avere il coraggio di riconoscere che in tempi recenti la verità cristiana non è stata più annunciata nella sua integrità, ma via via ne sono stati accentuati sempre più marcatamente i risvolti e le implicazioni compatibili con la sensibilità degli uomini formatisi nell’orizzonte della cultura e del costume moderni. Il cristianesimo si è praticamente ridotto così, agli occhi dei più, a una forma di umanesimo».
Sono parole tratte da una della due encicliche scritte da un personaggio frutto dell’immaginazione di Sergio Quinzio. Si tratta dell’ultimo papa, Pietro II, che nella finzione di quel teologo irregolare le avrebbe pubblicate prima di compiere un gesto estremo con cui pone fine alla millenaria storia della Chiesa romana. L’osservazione sul cristianesimo che si riduce a una forma di umanesimo sono nella prima delle due encicliche, nella quale Pietro II ribadisce che la resurrezione dei morti fa parte delle verità riconosciute dalla chiesa. Questa affermazione viene derisa o ignorata, e questo spinge il papa immaginato da Quinzio a diffondere un nuovo, più radicale, messaggio, prima di togliersi la vita lasciando i fedeli faccia a faccia con dio (o con la sua assenza).
Perché rileggere e rievocare questa singolare (qualcuno potrebbe persino dire blasfema) opera di Quinzio proprio oggi? Credo che Mysterium iniquitatis (Adelphi, 1995) sia una lettura preziosa per quelli di noi che, non essendo credenti, corrono il rischio di dimenticare che c’è una specificità del cristianesimo che non si lascia ridurre a un messaggio politico, a un partito, a un progetto sociale o economico.
Se è vero che la chiesa come istituzione storica si misura da sempre, volente o nolente, con il mondo umano, è anche vero che prendere sul serio i cristiani, secondo un principio di carità interpretativa che dovremmo applicare a ogni interlocutore, vuol dire ammettere che si proiettano su una dimensione che non è esclusivamente mondana. Possiamo pensare che questa dimensione sia soltanto un’illusione, ma non possiamo proiettare il nostro dubbio su chi professa la fede. Possiamo discutere e litigare con loro, compiacerci quando difendono ciò che anche per noi è giusto, e dolerci quando le nostre convinzioni non coincidono, ma senza mai dimenticare che c’è un’eccedenza di senso nel loro discorso che sfugge alla nostra capacità di comprensione.
Per questo il cristianesimo, specie quando si esprime, come spesso faceva nelle parole e nei gesti di Francesco, con una teologia della croce e non del trionfo, disturba così tanto in una società sempre più vicina alla piena identificazione tra il prezzo e il valore di qualsiasi cosa.
Nell’insegnamento del pontefice scomparso le dimensioni cristiane della carità, dell’accoglienza e del perdono erano centrali, e prevalevano rispetto alla visione militante di una chiesa occidentalista di cui alcuni auspicano il ritorno in Vaticano. Quelle parole e quegli atti spiazzano perché non sono semplicemente un altro umanesimo, ma la testimonianza di qualcosa che ci spinge a farci domande che nella nostra società vengono considerate sconvenienti.
Piangiamo la morte di un uomo, ma non perché abbiamo perso un compagno di battaglie politiche, o la guida di un movimento, ma perché è scomparso un testimone. Qualcuno che sapeva trasmettere fiducia nella possibilità di un modo di stare al mondo che non si esaurisce in quello che hai, ma coltiva la speranza che sarai rispettato per quello che sei.