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La crisi 5Stelle. Ma il governo Draghi non è dinamitato. Potrà rafforzare il proprio segno già conservatore, la sua rappresentanza diretta dell’universo imprenditoriale

Illustrazione di Ludovica Valori

Qui la politologia si arrende. E anche la politica, intesa come arte conoscitiva del possibile. Forse solo la psicanalisi riesce in qualche modo a dar conto delle convulsioni che stanno squassando i Cinquestelle. Il “buffet delirante” che si è impadronito dell’unico fondatore sopravvissuto, spingendolo a destabilizzare il “suo movimento” nel momento più delicato di una già di per sé arrischiata transizione, si spiega solo con profonde patologie dell’Io. Anzi, dell’Io “patriarcale”: il più arcaico, il più selvaggio, quello del patriarca che non sopporta che la propria tribù possa vivere in qualche misura di vita propria. Quello del creatore che odia persino l’idea che la sua creatura si distacchi da lui. O del padre che odia i figli per la sola ragione, biologica, che gli sopravvivranno. Insomma, la “sindrome di Crono”, che come ci insegna la mitologia se non superata da un qualche Giove olimpico produce un mortale arresto del corso storico.

Ora, proprio per l’insostenibile pesantezza del ruolo dell’Ombra e dell’Inconscio in questa brutta faccenda, è difficile prevedere cosa ci aspetti nei giorni prossimi, come evolverà o involverà la crisi. Se l’Uno si spezzerà in due (non metà, ma quarti, ottavi, sedicesimi). Se si assisterà a una classica scissione, o a una scalata dall’interno. O alla stipula di una tregua, che illuda di congelare uno status quo ormai comunque perduto. Non è dato neppure capire se la “mediazione” che porterebbe a superare l’elezione del “Comitato direttivo” con la nomina di “7 saggi” (sette come “i re di Roma”, come “i nani di Biancaneve”, come “I sette a Tebe” di Eschilo…), andrà in porto oppure no. Se Conte allargherà le maglie della propria finora abbondante pazienza o esprimerà il suo Vaffa…

Ma quel che è certo è che il sistema politico italiano ne esce ulteriormente dinamitato. Il sistema politico, si badi, non

il governo. Il quale anzi potrà rafforzare il proprio segno già naturalmente conservatore. La propria vocazione alla verticalizzazione della decisione. Al monopolio dell’indirizzo politico. Alla rappresentanza pressoché diretta e senza residui dell’universo imprenditoriale, senza più nemmeno il fastidio di possibili interferenze parlamentari: da parte cioè di un potere legislativo ridotto a mero ornamento, nel quale la maggioranza numerica uscita dalle urne del 2018 sull’asse M5S e Pd si disperde nei rivoli di una crisi d’identità apparentemente terminale. Draghi, dunque, potrà continuare a governare – con logica bonapartista – indifferente alle contorsioni delle forze parlamentari come il praetor del diritto romano che de minimis non curat (indifferente persino – ed è uno scandalo! – al fatto che il leader dell’unico partito della sua maggioranza che ha un ministro economico di primo piano, faccia lega con sovranisti come Orbán e neonazisti come quelli di Afd). Governerà, come un vero Comitato d’affari dei potentati economici e finanziari. Ma lo farà nel contesto di un sistema politico (e sociale) in disfacimento. Nel quale le ampie falle aperte nell’involucro costituito a suo tempo dal M5S lasceranno defluire flussi di voti consistenti in parte, probabilmente, verso un’astensione già stellare, in parte (minore) verso un Pd che nulla fa per meritarseli, ma in parte e in misura consistente verso destra. E questo degli ex voti grillini in marcia verso Meloni o Salvini sarà una piaga del prossimo futuro, perché è un esodo verso una destra a sua volta divisa e litigiosa al suo interno ma sempre più trasversalmente attraversata da sentimenti nazionalisti (si veda il patto sovranista in Europa) e fascistoidi (testimoniati dalle reazioni alla mattanza carceraria). Una destra, aggiungiamolo, che pretenderà di mettere il proprio sigillo sulla prossima elezione del Capo dello Stato, forte della posizione in cui la pone la dissoluzione del Centro.

Oggi festeggiano un po’ tutti – da Libero al Foglio a Domani fino a Repubblica, dagli amici di Draghi e quelli di Renzi o di Calenda -, la crisi di quell’anomalia selvaggia che non avevano mai digerito. Festeggiano, e sembrano l’orchestrina che suona sul ponte del Titanic. Perché quello che vediamo all’opera oggi nei 5stelle è in realtà – in forma esasperata ed estrema, come nel loro carattere – la rappresentazione di una crisi generale della politica democratica e dei suoi assetti. Di un processo dissolutivo più generale e altrettanto profondo, il quale affonda le radici nell’esito della parabola populista, e nel panorama di rovine che lascia allo scoperto.

In fondo, se ci ragioniamo a mente un po’ più sgombra, non può sfuggirci l’analogia tra l’attuale “follia” di Beppe Grillo, e il destino di altre due figure chiave del populismo 2.0, come Matteo Renzi, da una parte, e Matteo Salvini dall’altra. Tutti e tre hanno costruito le rispettive creature politiche sulle proprie persone – su una personalizzazione esasperata -. E tutti e tre le hanno “sabotate” nell’incapacità di mediare i propri Ego straripanti con la realtà. È in fondo il destino della sindrome populista che di emotività personalizzata ferisce e di emotività personalizzata perisce. Il successo, tuttavia, di quel populismo di ultima generazione, la sua eccedente energia politica, nasceva dal fatto che metteva allo scoperto una malattia mortale della democrazia contemporanea: la sua incapacità a rappresentare i rispettivi popoli. Ora quella domanda inespressa di rappresentanza rimane intatta, ma la risposta ad essa rischia di ritorcersi contro lo stesso involucro istituzionale in cui è contenuta. Per questo lo scenario post-populista a cui ci affacciamo rischia di essere istituzionalmente più disastroso di quello, pur travagliato, che abbiamo vissuto.

Gramsci, ragionando sul 1921, scrisse a suo tempo che i comunisti stessi allora erano stati parte del generale processo di dissoluzione il cui esito era stato il fascismo. C’è il rischio che anche noi, oggi, sottovalutiamo la forza della dissoluzione.