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Il presidente statunitense Joe Biden sul podio del summit Nato a Washington Il vetice di Washington per i 75 anni della Nato - Susan Walsh /Ap

Il 75° vertice Nato si è avviato alle conclusioni con l’ingombrante presenza del suo convitato di pietra, Donald Trump. L’ex presidente che ambisce a tornare alla Casa bianca si comporta, in spregio al barcollante Joe Biden, come se fosse già il commander in chief e ieri ha persino ricevuto a Mar-a-Lago l’ungherese Orbán che da presidente di turno dell’Ue aveva già sfidato tutti incontrando Putin e Xi Jinping. Il “Time” lo indica come una sorta di mediatore tra Putin e Trump.

Insomma la presidenza Trump è iniziata ancora prima di andare a votare a novembre.

Ed ecco allora che il summit di Washington è stata un’affannosa rincorsa a costruire una sorta di sbarramento di sicurezza intorno all’Ucraina di Zelensky ma senza trascurare due capitoli, la Cina e l’aumento delle spese militari, cavalli di battaglia anche di Trump.

Con l’aggiunta della nomina di un incaricato Nato per il “fianco Sud”, cioè il Mediterraneo, il Medio Oriente e l’Africa, che appare come una sorta di zuccherosa caramella per la politica estera italiana, sconquassata nel 2011 in Libia da disastroso intervento americano, francese e britannico contro Gheddafi con danni tali a noi e ai popoli della regione che dovremmo chiedere ai nostri alleati la metà degli aiuti dati a Kiev.

Il segretario Jens Stoltenberg (a ottobre sarà sostituito dall’olandese Rutte) ha parlato del «più vasto piano di difesa dalla Guerra Fredda»: un progetto elaborato da mesi anche in caso di un cambio di leadership alla Casa bianca. Ma il comunicato finale è un capolavoro di ambiguità: indica che il percorso dell’Ucraina nell’Alleanza è «irreversibile». Irreversibile e per il momento del tutto improbabile perché le regole Nato vietano l’ingresso di un Paese in guerra che potrebbe invocare a sua protezione l’articolo 5 con l’intervento degli alleati, al punto da scatenare la terza guerra mondiale.

Quindi Zelensky si deve accontentare di 40 miliardi di dollari di aiuti (quasi metà di una nostra finanziaria), della consegna (a rate) dei caccia F-16 e di nuovi sistemi di difesa anti-missile, dai Patriot Usa ai franco-italiani Samp T, una sorta di incoraggiamento all’Italia per aumentare le spese militari al 2% del Pil, a discapito ovviamente delle spese sociali.

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Ma la vera novità rispetto ai vertici precedenti dell’Alleanza è stato l’attacco alla Cina, che evoca in buon parte anche il comunicato finale del G-7 in Puglia. Il vertice di Washington ha accusato il governo cinese di aiutare in modo decisivo la guerra d’aggressione russa contro l’Ucraina.

La diplomazia cinese ha replicato che la Nato usa un linguaggio «provocatorio, pieno di bugie ispirate da mentalità da guerra fredda». Tutto questo mentre la difesa di Taipei ha seguito 66 aerei da guerra con la stella rossa intorno all’isola e ne ha individuati 56 oltre la Linea mediana dello Stretto di Taiwan.

Nel duro monito della Nato alla Cina – in quanto membro del Consiglio di sicurezza Onu – Pechino viene invitata a «porre fine a qualsiasi forma si sostegno politico e materiale» al Cremlino. Pechino è definita «un pericolo per l’Europa e la sicurezza», insieme alla Nord Corea e all’Iran.

Stoltenberg ha aggiunto che la Cina rischia di mettere in discussione «i normali rapporti» con la Nato entrando nel campo minato dei rapporti commerciali ed economici intrattenuti dagli stessi membri dell’Alleanza con Pechino.

E qui sta il punto, come scriveva ieri Sabato Angieri sul manifesto : c’è una parte di mondo, il più vasto, dalla Cina alla Russia all’India di Modi (che abbraccia Putin anche in questi giorni) al Brasile, a buona parte del continente africano, che non crede più alla funzione rivendicata dalla Nato, ovvero quella di garante dell’«equilibrio globale».

Ed è qui che come al solito – come sottolineava quattro giorni fa sempre sul manifesto Tommaso Di Francesco – che casca l’asino europeo, incapace di definire una propria politica estera e ancora un volta si affida, senza alcuno spirito critico, all’Alleanza atlantica e agli Stati uniti con la nomina dell’inviato in Medio Oriente e Africa. Ma è proprio qui, in questo “fianco Sud” che gli Usa e alcuni dei loro alleati hanno fatto danni di dimensioni epocali.

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Se non ci fosse stata l’invasione russa dell’Ucraina staremmo ancora a parlare del disastroso ritiro nel 2021 dall’Afghanistan dove gli Usa, umiliando proprio gli alleati della Nato, hanno riconsegnato il Paese all’oscurantismo dei talebani. Parliamo di quegli Stati Uniti che usando dozzine di basi nel Mediterraneo hanno attaccato l’Iraq nel 2003 mentendo spudoratamente sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein e creando un vuoto di potere occupato prima da Al Qaida e poi dall’Isis.

Quelle stesse basi Usa e Nato sono servite per distruggere il regime di Gheddafi nel 2011 senza creare una valida alternativa: la Russia e la Cina si sono infilate sulle coste del Mediterraneo e in Africa grazie ai disastri creati dai membri dell’Alleanza atlantica.

Il nuovo incaricato per il Medio Oriente – dove la guerra di Gaza e il Libano non sono mai citati nel comunicato finale di ieri – dovrà chiedere alla Turchia, membro storico della Nato, e agli alleati arabi come mai non applicano sanzioni alla Russia. La risposta sarà un sorriso amaro e sprezzante riservato a chi contrabbanda come «ordine mondiale» un caos sanguinoso e senza rimedio