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Il successore. Il passaggio di mano alla cultura meloniana è anche un cambio di testimone tra generazioni

Alessandro Giuli foto Ansa Alessandro Giuli - foto Ansa

L’altro giorno, mentre il claudicante Gennaro Sangiuliano era nei camerini Rai a prepararsi per la sua intervista-vaudeville al Tg1, il cinquantenne Alessandro Giuli, con tipico vestito color crema, era stato visto immergersi nell’androne del ministero con fare dinoccolato. Il passaggio di mano alla cultura meloniana è anche un cambio di testimone tra generazioni. Se Sangiuliano appartiene a quella, più ingessata, che si è formata con Giorgio Almirante e che ha provato in tutti i modi a inscrivere la propria storia dentro il solco del pensiero reazionario e conservatore prima italiano e poi europeo, Giuli ha una storia più estremista ma a suo modo disinvolta: si forma nel ciclo dei Novanta, quando tra i giovani del Fronte della gioventù circola la voglia di rimettersi in discussione e provare a mischiare le carte, per uscire dal Msi, considerato nostalgico e in fondo inservibile.

Insomma, negli stessi anni in cui la giovane Giorgia Meloni si infila in una sezione missina affascinata dalla figura del giudice Borsellino, secondo la prosopopea che circola da anni, il giovane Giuli è stato il giovane e intellettuale ed enfant prodige della destra romana più estrema. Aderisce a Meridiano Zero, organizzazione fondata da Rainaldo Graziani, figlio del dirigente di Ordine nuovo Clemente, la cui esperienza dura poco più di due anni che appaiono decisivi per fornire al futuro ministro un codice di riferimento. Il gruppo si scioglie nel 1993, anticipando gli effetti della legge Mancino contro l’odio razziale. Al momento di comunicare alla Digos il dissolvimento promette di proseguire l’attività per superare la «logica neofascista, che comunque abbiamo rappresentato, e di questo siamo fieri, ma che oltre ad un patrimonio indissolubile, rappresenta anche un ostacolo per garantire una continuità con il futuro». A questo punto, Giuli si muove tra destra postfascista di governo ed estremismo, accreditamento nel sistema culturale e mediatico e tentazioni eretiche. Proviene da una famiglia della piccola borghesia della zona di piazza Bologna, ma si è diploma al Tasso, liceo upper class tra i banchi con Giulia Calenda, sorella di Carlo, e la futura ambasciatrice Jessica Laganà. Studia filosofia alla Sapienza coltivando i riferimenti neofascisti (approfondisce Julius Evola, ça va sans dire), finisce gli esami senza discutere la tesi, fonda riviste radicali con sponde istituzionali (è l’epoca del nazionalalleato Silvano Moffa presidente della provincia di Roma)

La sua storia è emblematica di come la galassia berlusconista abbia fornito appigli materiali e arnesi culturali al vecchio mondo neofascista in cerca di collocazione e in uscita dal ghetto. La svolta della sua carriera arriva quando arriva all’agenzia che cura il Foglio dei Fogli, inserto del quotidiano diretto da Giuliano Ferrara fatto di ritagli della settimana. Approda direttamente alla corte di quest’ultimo, fino a diventarne il braccio destro. Chi si è confrontato con lui nel corso degli anni racconta che proprio da Ferrara abbia appreso l’arte disinvolta di muoversi a cavallo tra il cinico realismo capitalista e il richiamo della foresta nera delle origini.

Resta l’amore-odio per il mondo post missino. Scrive Il passo delle oche, pamphlet puntuto su «l’identità irrisolta dei postfascisti». Non dimentica le fascinazioni pagane, che rimette insieme in un volume su Cibele uscito con Settimo Sigillo, la casa editrice di estrema destra che ha dato spazio a pubblicazioni esplicitamente antisemite e filo-naziste. Ricicla lo stesso tema in televisione, dove avrà qualche occasione (non riuscita) per proporsi come anchorman della destra, con il grottesco Vitalia, programma incentrato sulla ricerca delle radici pre-cristiane. Collabora con la fondazione Med-Or, braccio diplomatico di Leonardo. Viene dato più vicino alla Lega di Salvini che a Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, il cui orizzonte culturale ed immaginario prima del boom elettorale definisce sarcasticamente come «la disneyficazione [nel senso di Walt Disney] del Movimento sociale italiano». Fino al riavvicinamento a Giorgia e la nomina al Maxxi, che usa come trampolino di lancio verso il governo, tra un palco con Morgan e Vittorio Sgarbi e l’autopromozione di un saggio su Gramsci di destra (aridanghete, povero Antonio) che colpisce più per la forma che per il contenuto: stile barocco e pretese da avanguardia letteraria