POLITICA. Non è chiaro, al momento, come finirà lo scontro interno al Pd sulle candidature alle elezioni europee; si sbaglierebbe però a considerare la vicenda solo come l’ennesimo episodio nella vita di un partito intrinsecamente instabile e litigioso
Elly Schlein, segretaria Pd - Ansa
Non è chiaro, al momento, come finirà lo scontro interno al Pd sulle candidature alle elezioni europee; si sbaglierebbe però a considerare la vicenda solo come l’ennesimo episodio nella vita di un partito intrinsecamente instabile e litigioso: al contrario, è proprio la spia di un deficit strutturale di questo partito, che emerge in tutti i passaggi critici, com’è certamente quello relativo alla posizione sulla guerra in Ucraina e sull’invio delle armi a Kiev. La proposta di candidatura di Marco Tarquinio ha fatto scattare in alcuni una sorta di riflesso condizionato: guai a mettere solo in dubbio la logica dell’allineamento acritico ai dettami dell’ortodossia atlantica.
D’altra parte, sin dall’inizio, dietro la formula passe-partout del «sostegno a Kiev», su cui il partito sembra essersi assestato, si nascondono interpretazioni, o anche solo atteggiamenti o accenti, molto diversi. E non potrebbe essere altrimenti: un sondaggio dell’istituto diretto da Ilvo Diamanti, nel dicembre 2023, raccontava come, su 100 elettori del Pd fossero 56 quelli favorevoli, con varia intensità, all’invio di armi (e sono in calo: erano 60 a giugno): e gli altri 44? contrari o quanto meno dubbiosi, evidentemente. E allora, non sarebbe ovvio, per un partito che si vuole plurale, dare voce a tutte quelle che vengono definite «diverse sensibilità» e verificare il consenso che esse hanno effettivamente, non solo all’interno dei gruppi dirigenti, ma in una più ampia opinione pubblica di sinistra?
È incredibile la regressione a cui stiamo assistendo: il Pci non pretendeva certo che gli eletti della Sinistra Indipendente fossero ligi alla linea del partito!
Il guaio, però, che è alla radice di questi dilemmi vi è qualcosa di molto più rilevante, ossia una strutturale incapacità del Pd ad elaborare collettivamente una linea politica e culturale, di definirne univocamente il profilo, attraverso una vera discussione da cui emergano le diverse posizioni e solo poi le possibili mediazioni (che però non possono andare oltre un certo limite, pena l’incomprensibilità o la genericità del punto di approdo).
Come si fa stabilire che, ad esempio, le cose che dice l’ex-ministro della Difesa Lorenzo Guerini sulla guerra in Ucraina sono «la» linea a cui non si può derogare? La risposta che, in genere, viene data, è la seguente: si discuta negli organismi. Già, sembra facile, ma non è così, e per un semplice motivo: gli attuali organismi dirigenti non sono organi dotati di una propria autonoma e legittima capacità rappresentativa e non svolgono funzioni propriamente definibili come deliberative. Sono organismi letteralmente trainati e nominati dai candidati segretario delle primarie, frutto di liste bloccate che sono, già in sé, molto spesso, coalizioni instabili di filiere e cordate locali e regionali, non certo espressione di orientamenti politici e culturali.
E non si può non notare un paradosso: questa logica plebiscitaria è analoga a quella che sta ispirando la riforma costituzionale del governo Meloni. Il Pd, giustamente, la sta contestando con fermezza proprio perché l’elezione diretta del premier e, al suo seguito, come mera appendice, quella del Parlamento, annullano l’autonomia e la legittimità della rappresentanza politica. Tanto più allora urge un ritorno alla coerenza, anche nel regime interno del partito. C’è bisogno di qualcosa che somigli ad un vero congresso: documenti politici diversi o anche alternativi, dettagliati per tesi, emendabili, votati e discussi in tutte le unità di base, con l’elezione di una platea di delegati che alla fine adotti solennemente questi testi. Sarà questa la sfida dei prossimi mesi, per la segreteria Schlein.
Le primarie dello scorso anno si sono svolte all’insegna della «costituente del nuovo Pd»: fino ad oggi, questo nuovo Pd vive solo, e forse non poteva essere altrimenti, grazie ad una serie di scelte politiche e programmatiche della segretaria, ma per il resto il partito, nella sua struttura e nel ceto politico che esprime (con alcune importanti eccezioni che, qui o là, cominciano ad emergere) rimane ancora quello di prima. Ed è sconfortante vedere come, di fronte al rischio di una coperta troppo corta per i seggi di Strasburgo, sia scattata una logica di mera autodifesa: il sintomo evidente di un ceto politico che non ha alcuna ambizione espansiva, e che pensa, innanzi tutto, a gestire l’esistente.
È un giudizio duro, forse ingeneroso, ma come altrimenti leggere quello che sta accadendo con le liste?
Fa specie poi che, con la massima noncuranza, ci si arroga il diritto di affermare l’intangibilità del Dna del partito (ad esempio in materia di primarie): ma, poi, di quale impianto genetico stiamo mai parlando? Quello che, in dieci anni, ha fatto perdere 6 milioni di voti?
Insomma, dopo le Europee, ci dovrà essere una stretta: o il Pd cambia il proprio modello di partito, o le fibrillazioni di questi giorni si riprodurranno su scala sempre più allargata, rendendolo ingovernabile. Il Pd non può a lungo continuare a cantare i versi di un’immortale aria mozartiana: «Non so più cosa son, cosa faccio»