Nato più di 35 anni fa, nel corso della sua ricerca il Teatro Due Mondi ha sperimentato lo spettacolo di strada, agendo in spazi che consentono l’incontro con un pubblico diverso. Nel 2010 ha organizzato le Brigate teatrali per e con le lavoratrici dell’Omsa, offrendo alle persone coinvolte la possibilità di esprimersi e di far conoscere la loro condizione. Con intenzioni e modalità analoghe promuove dei laboratori con i richiedenti asilo – presenti in città dal 2011 – ai quali partecipano faentini non attori. L’attività teatrale offre così spazi e metodi di incontro che contribuiscono a rendere più facile e quindi possibile una convivenza civile fra le culture.
Il Teatro Due Mondi è ampiamente conosciuto a Faenza. Nato come “teatro di gruppo” nel 1979, si è caratterizzato nel corso dei decenni per una continua ricerca artistica che promuove nel contempo una società fondata sul riconoscimento e rispetto dell’altro, attraverso laboratori teatrali nelle scuole, teatro per bambini e ragazzi, seminari e convegni artistici. I suoi spettacoli hanno fatto il giro del mondo.
Abbiamo incontrato Alberto Grilli, regista del Gruppo, per capire meglio in che modo oggi il Teatro Due Mondi opera nella complessa e problematica realtà territoriale.
Come siete arrivati al teatro di strada, genere che vi caratterizza fortemente negli ultimi decenni?
“Dopo una prima fase, avviata nel 1979, abbiamo sentito la necessità di trovare un’ identità condivisa e il bisogno di scambiarla. Siamo andati alla ricerca dello spettacolo come scambio e ricerca dell’altro che non ci ha cercato, e quindi di un pubblico diverso. Al centro la parola ‘altro’ e il concetto ad essa legato, da qui non solo un altro pubblico, ma anche un altro spazio. Non più solo spettacolo, ma anche esperienza pedagogica con altri, perché occorre seminare. Tutto questo è ciò che caratterizza il teatro di strada”.
Sicuramente i faentini vi identificano, oggi più che mai, dopo la triste vicenda OMSA, con le brigate teatrali che hanno percorso le strade cittadine e col famoso spettacolo portato in giro in varie città dalle operaie che
si sono unite ad attori e volontari, ma mentre continuate questo impegno, avete agganciato anche la pressante realtà dell’ immigrazione. In che modo?
“L’interesse verso altre culture è sempre stato presente nel nostro teatro: abbiamo lavorato con bambini bosniaci e albanesi, ad esempio, ma il progetto che oggi stiamo realizzando è nato per caso. C’era un terreno pronto, un laboratorio fatto a Lugo nel 2011. Su richiesta del CEFAL di essere coinvolti nell’emergenza profughi provenienti dalla Libia, avevamo iniziato un laboratorio a giugno e a settembre eravamo stati in grado di presentare uno spettacolo. Poi a Faenza, dove già c’erano rifugiati richiedenti asilo, abbiamo avviato incontri settimanali per creare azioni di strada che raccontino un ‘pensiero condiviso’. Come nell’esperienza precedente, l’intento è stato quello di ‘dare voce’, attraverso ‘non attori’, a gruppi sociali deboli o marginalizzati, offrendo loro la possibilità di comunicare socialmente, di crescere, sia come individui sia come gruppo, di aumentare la stima di sé, l'autodeterminazione, di conoscere le proprie potenzialità”.
Come avete superato la non conoscenza della lingua fra i vari soggetti?
“Il problema chiaramente si è presentato, considerato che ci siamo trovati di fronte a francofoni, anglofoni e, a volte, a persone non appartenenti né a l’uno né all’altro gruppo linguistico. Abbiamo seguito il Giving voice project per conoscere come arrivare, attraverso il teatro, ad avvicinare al mondo sonoro della lingua che gli stranieri andranno a parlare: canto, lavoro di gruppo, imitazioni… Occorre inventare strategie a seconda della nazionalità”.
Che relazioni sono nate fra voi e loro?
“In genere stanno due-tre mesi poi vanno via, nonostante ciò alcuni mantengono i contatti. Chi si ferma continua a venire. Sono così nate amicizie con italiani. Qui non si parla di religione e tutti devono accettare l’uguaglianza uomo-donna. Questa esperienza fa capire come si può stare al mondo e come è dura la vita anche qua. Quando di fronte alle nostre proposte gli immigrati chiedono :’Ma chi siete?’, noi rispondiamo ‘Solo uomini’. Loro aiutano a creare relazioni. Tutti coloro che fanno laboratorio teatrale cambiano, anche gli italiani. Il risultato è che si visualizza la possibilità di creare relazioni vere. In questo senso debbo dire che Faenza si presenta pigra, paurosa”.
Come finanziate questi progetti?
“In parte con la Casa del Teatro – quindi attraverso l’Amministrazione Comunale – ma stiamo cercando altri finanziamenti, anche europei. Al momento abbiamo in cantiere anche un progetto con la Caritas. Vorremmo però passare il testimone a una nuova generazione, per questo cerchiamo di coinvolgere sempre più giovani ai quali far conoscere esperienze uniche. Un obiettivo è quello di portare in Italia un gruppo di Nairobi dell’Ong A.M.R.E.F. fondata da medici africani che si occupano di giovani di strada. Noi, tutto sommato, siamo fortunati a poter entrare in contatto con culture diverse, a poterle mediare, e vorremmo che questo lo capissero anche i faentini per realizzare insieme una comunità solidale”.