Pubblicato il “Country report 2024” con le raccomandazioni sulle «politiche economiche, sociali, occupazionali, strutturali e di bilancio dell’Italia». L’Ue boccia senza appello il ddl Calderoli: “Rischio di aumento disuguaglianze regionali»
«La devoluzione di ulteriori competenze alle regioni italiane comporta rischi per la coesione e le finanze pubbliche del Paese». La Commissione europea boccia senza appello il disegno di legge sull’autonomia differenziata. E lo fa proprio nelle stesse ore del voto finale alla Camera rendendo noto il “Report annuale sulle economie nazionali”. Report che dedica un paragrafo proprio al ddl Calderoli facendo riferimento al testo che era stato approvato in Senato, chiaramente, ma che in soldoni è stato confermato alla Camera.
Ieri la Commissione ha reso noto il “Country report 2024” con le raccomandazioni sulle «politiche economiche, sociali, occupazionali, strutturali e di bilancio dell’Italia». Nel paragrafo sulle riforme ecco la stoccata all’autonomia differenziata voluta dal governo Meloni e da ieri legge in attesa della firma del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Scrive la Commissione: «Nel gennaio 2024 il Senato ha approvato la legge per l’attuazione dei livelli differenziati di autonomia delle regioni a statuto ordinario, che potranno richiedere fino a 23 competenze aggiuntive e trattenere le risorse corrispondenti. Il disegno di legge include alcune tutele per le finanze pubbliche, come le valutazioni periodiche delle capacità fiscali regionali e i requisiti per i contributi regionali per raggiungere gli obiettivi fiscali nazionali. Tuttavia sebbene assegni specifiche prerogative al governo nel processo negoziale, non fornisce alcun quadro comune per valutare le richieste regionali di competenze aggiuntive».
La Commissione è preoccupata quindi per l’aumento delle diseguaglianze che l’autonomia così progettata rischia di portare al Paese: «Le regioni potranno richiedere competenze aggiuntive — si legge nel report — solo una volta definiti i corrispondenti “livelli essenziali di servizi”. Poiché i Lep garantiscono solo livelli minimi di servizi e non riguardano tutti i settori vi sono ancora rischi di aumento disuguaglianze regionali».
Ma è proprio sul futuro dell’architettura istituzionale dell’Italia e sulla tenuta dei saldi contabili che la Commissione ha timori: «La devoluzione di poteri aggiuntivi alle regioni su base differenziata aumenterebbe anche la complessità istituzionale, comportando il rischio di costi più elevati sia per il settore pubblico che per quello privato».
Il report ribadisce l’allarme lanciato da enti di ricerca italiani, come la Svimez, sul tema dei maggiori investimenti che invece sarebbero necessari per consentire al Mezzogiorno di competere con altre aree del Paese: «Le capacità amministrative e tecniche delle pubbliche amministrazioni restano un ostacolo critico per lo sviluppo delle regioni meridionali — continua il dossier — come rilevato da Svimez sul Pnrr».
La Commissione plaude alle azioni del governo Meloni che vanno invece in direzione opposta all’autonomia: «Alcune iniziative adottate a livello nazionale indicano un maggiore coordinamento centrale dell’azione politica, in particolare per il Sud. In generale una strategia industriale e di sviluppo per il Mezzogiorno migliorerebbe il valore aggiunto degli investimenti».
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ROMA. «Verso una svolta autoritaria? L’Italia e l’Europa tra neoliberismo e restrizione della democrazia» il titolo dell'incontro organizzato da Forum disuguaglianze diversità e Volerelaluna
La sala della libreria Spazio Sette di Roma
Due giorni dopo l’adunata di piazza Santi Apostoli, le opposizioni tornano a farsi vedere unite. L’appuntamento, organizzato dal Forum disuguaglianze e diversità di Fabrizio Barca e da Volerelaluna, ha messo a sedere, nella sala al secondo piano della libreria Spazio Sette di Roma, tutte le forze del centrosinistra: Marta Bonafoni per il Pd, Roberto Fico per il M5s, Nicola Fratoianni per Avs, Riccardo Magi per +Europa, Maurizio Acerbo per Rifondazione Comunista e Chiara Capretti per Potere al popolo.
In precedenza, studiosi e attivisti hanno ragionato intorno al tema dell’incontro: «Verso una svolta autoritaria? L’Italia e l’Europa tra neoliberismo e restrizione della democrazia». Il filo che tiene insieme tutte queste forze è il governo Meloni con i suoi propositi di cambiamento dell’assetto dello Stato, dalla riforma del premierato all’autonomia, passando per la separazione delle carriere della magistratura.
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Benyamin Netanyahu è stato impegnato ieri a sedare la guerra interna alla sua litigiosa coalizione di destra su leggi controverse da approvare. Ma guardava al nord. Entro qualche settimana o forse solo qualche giorno, Netanyahu potrebbe ordinare alle forze armate di invadere il Libano così da spingere i combattenti di Hezbollah lontano dal confine e, come afferma qualche analista israeliano, per ridisegnare gli equilibri in Medio oriente.
MARTEDÌ SERA i vertici militari hanno comunicato che i piani operativi per un’offensiva in Libano sono stati «approvati e validati». Il ministro degli esteri Israel Katz ha avvertito che il Libano intero, e non solo Hezbollah, pagherà un costo elevatissimo se scoppierà una guerra aperta tra i due paesi.
Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha risposto ieri a questi ammonimenti durante il discorso commemorativo per Taleb Sami Abdallah, il comandante di Hezbollah più importante ucciso da Israele dopo il 7 ottobre. Da un lato ha ribadito che il movimento sciita libanese «non vuole entrare in una guerra totale con Israele, perché la sua lotta è solo un fronte di sostegno» ad Hamas e ai palestinesi e che gli attacchi con missili e droni lungo il confine termineranno se Israele fermerà la sua offensiva a Gaza e sarà realizzato un cessate il fuoco vero, migliore di quello proposto da Joe Biden e approvato dall’Onu. Dall’altro ha però avvertito che nessun luogo di Israele sarà risparmiato in caso di guerra totale.
PAROLE credibili. Hezbollah ha notevoli capacità militari e un arsenale molto più ampio e avanzato di quello di Hamas a Gaza. I suoi droni sono stati in grado di penetrare lo spazio aereo israeliano e di riprendere immagini di Haifa, dei suoi impianti industriali e delle sue basi militari. Il filmato, diffuso martedì, ha destato sorpresa in Israele abituato a pensarsi come la superpotenza hi-tech della regione e a vantarsi di poter utilizzare droni e altri strumenti di sorveglianza contro nemici vicini e lontani. Hezbollah ha detto che può realizzare anche questo: da gruppo guerrigliero con l’aiuto dell’Iran, negli ultimi dieci anni si è trasformato in un moderno e sofisticato piccolo esercito in possesso di missili di varia gittata in grado di colpire ogni punto del territorio israeliano.
A TRATTENERE Netanyahu dal lanciare l’offensiva non sono tanto le mediazioni tra Tel Aviv e Beirut, ancora in corso, per evitare una nuova guerra, bensì le conseguenze di una massiccia risposta di Hezbollah. In caso di guerra il movimento sciita non si limiterà a lanciare missili e droni verso centinaia di obiettivi, a cominciare da Tel Aviv e Haifa, ma cercherà di indirizzare le sue truppe d’élite Radwan, le più addestrate, all’interno del territorio israeliano e di occupare centri abitati e basi militari.
Lo sfollamento dalla Galilea in quel caso riguarderebbe centinaia di migliaia di israeliani e non solo gli attuali 60mila che chiedono allo Stato un’azione di forza, anche la guerra aperta con Hezbollah, pur di tornare alle loro case sul confine.
ISRAELE per vincere la guerra – che si prevede catastrofica per la popolazione libanese – dovrà lanciare le sue divisioni corazzate fino al Litani se non addirittura fino alle porte di Beirut, per poi imporre un cessate il fuoco alle sue condizioni. Non solo, inciterà alla «sollevazione» le formazioni libanesi sponsorizzate da Usa e Francia, che chiedono il disarmo di Hezbollah, a scagliarsi con più forza contro il movimento sciita. In sostanza Israele replicherà in Libano la strategia che – senza grandi risultati – attua a Gaza per «rimuovere Hamas dal potere». Una escalation regionale è credibile: l’intervento dell’Iran a difesa di Hezbollah e del Libano non si può escludere. Mentre le milizie irachene e yemenite (Houthi) intensificheranno gli attacchi con droni e missili contro obiettivi israeliani e nel Mar Rosso. «Israele non può permettersi di meno, deve conseguire una vittoria netta e strategica su Hezbollah. Perciò deve spostare la priorità al fronte nord e lanciare una guerra in profondità nel territorio libanese», ha esortato su Ynetalerts l’analista Ron Ben Yishai.
LA NUOVA GUERRA tra Israele e Hezbollah, il «secondo round» di cui si parla dal 2006, non è mai stata così concreta come in questi giorni. Il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant ha tenuto ieri sera una riunione a Safed con il capo di stato maggiore Herzi Halevi, il capo del comando settentrionale Ori Gordin e il capo dell’aviazione Tomer Bar. «Abbiamo l’obbligo di cambiare la situazione nel nord», ha intimato Gallant. Nelle ultime settimane il Comando del Fronte interno ha allestito rifugi antiaerei e confezionato 80mila pacchi alimentari da distribuire durante la guerra, ha riferito Ynet.
LA SCORSA settimana ha pianificato le linee di rifornimento per le truppe israeliane che invaderanno il Libano. E ha rafforzato le batterie Iron Dome e David’s Sling per neutralizzare in parte i 4mila missili che Hezbollah sarà in grado di sparare ogni giorno per diversi giorni
Il tavolo delle trattative per i top jobs non si è chiuso, quello per la maggioranza parlamentare si è appena aperto. Sono due giochi intrecciati. Partendo dal primo, la cena informale dei leader lunedì notte ha trovato un accordo di massima ma poi è andata in stallo su due fronti: la richiesta del Ppe di una staffetta al vertice del Consiglio europeo, con inizio per i primi due anni e mezzo assegnato ai socialisti, e le rivendicazioni di Giorgia Meloni per la scarsa considerazione da parte dei leader Ppe-socialisti-liberali dei risultati elettorali che hanno visto il montare della destra in molti paesi, a partire da Francia e Germania.
Tra il primo e il secondo round (che sarà al prossimo Consiglio europeo del 27 e 28 giugno a Bruxelles), inizia la fase di formazione delle squadre. Ovvero i gruppi parlamentari che a Strasburgo, tra un mese, dovranno comporre una maggioranza per eleggere il presidente della Commissione Ue: il von der Leyen bis, se regge il compromesso provvisorio finora raggiunto.
PPE A QUOTA 200
Il secondo tempo è tutto sui numeri, e questo i gruppi lo sanno bene. In questi giorni l’Eurocamera ospita una fitta serie di incontri costitutivi, oltre al lavorio di quelli preparatori, per presentarsi come più forti e possibilmente coesi ed eleggere il proprio leader, che li guiderà nella navigazione parlamentare.
Ieri ha iniziato il gruppo di maggioranza relativa, il Ppe, per riconfermare il Cdu tedesco Manfred Weber e accogliere diverse nuove delegazioni nazionali. Tra queste spiccano il Nuovo contratto sociale (Nsc) e il ruralista Bbb, i partiti olandesi al governo nei Paesi bassi insieme all’islamofobo Pvv di Geert Wilders e ai liberali dell’ex premier Rutte. Importante, politicamente e numericamente, anche l’ingresso degli ungheresi di Tisza, il partito di Peter Magyar, sfidante del premier ultranazionalista Viktor Orbán, che porta in dote 8 eurodeputati. In totale, le nuove acquisizioni spingono la Balena bianca europea a oltrepassare la soglia psicologica dei 190 seggi.
SOCIALISTI E DEMOCRATICI
Discussione tutta interna quella che impegna i socialisti del gruppo S&D, non sul fronte numerico, che li vede secondi a quota 136 seggi, quanto rispetto alla presidenza del gruppo. In teoria spetterebbe alla delegazione più grande, ovvero quella Pd, che supera di un eletto il Psoe spagnolo, ma secondo un’indiscrezione che circola a Bruxelles, gli spagnoli non sembrano disposti a cedere sul nome dell’attuale leader parlamentare, la capogruppo Iratxe Garcia Perez. A dire il vero al Pd manca il nome del 21esimo eletto, che risulterà comunque dalla rinuncia di Alessandro Zan, candidato sia nel collegio Nord ovest che in quello Nord est. Il tema è aperto, dato che ieri fino al tardo pomeriggio era in corso una riunione tra i capi delle delegazioni nazionali del gruppo.
VERDI E LEFT, IL CASO AVS
Sulla formazione di questo gruppo parlamentare, come degli altri, incombe il caso italiano. Sui nostri eletti nazionali infatti pesano due problemi: il sistema di scelta multipla dei collegi e il caso del riconteggio di alcune decine di sezioni della Capitale, a oggi non ancora terminato. La questione riguarda anche le delegazioni di Lega e FdI: nel primo caso Vannacci (intercettato giusto ieri nei corridoi del Parlamento europeo a Bruxelles) deve optare tra Nord ovest e Centro, nel secondo Giorgia Meloni deve ancora formalmente rinunciare, così come il leader Fi Antonio Tajani, per dare modo agli eletti di essere confermati.
La situazione forse più intricata è però quello degli eletti in Avs, dove i confermati al momento sono Ilaria Salis, Mimmo Lucano e Ignazio Marino, ovvero tre dei sei eletti totali dell’Alleanza tra i partiti di Fratoianni e Bonelli. Oltre al labirintico «se rinuncia in quel collegio, fa entrare qualcuno in quell’altro», che nel caso di Avs è perfino multiplo, se ne aggiunge uno di appartenenza partitica italiana, che si riflette nell’iscrizione al gruppo a Strasburgo. Ad esempio, Leoluca Orlando, per diventare eurodeputato, attende l’eventuale rinuncia sia di Salis che Lucano nella circoscrizione Isole. Benedetta Scuderi otterrebbe il seggio solo se nel Nord ovest rinunciassero Salis, Lucano e Marino. Il punto è poi che l’ultimo ha già aderito ai Greens, mentre Salis e Lucano dovrebbero andare in Left. Chi saranno e dove andranno gli altri tre?
Oggi si tiene a Bruxelles una prima riunione costitutiva del gruppo Greens per eleggere i leader, ma la riconferma di Bas Eickhout e Terry Reintke avverrà senza certezze sulla composizione della delegazione italiana.
DESTRA E TRATTATIVE NATO
La destra, da parte sua, lavora sottotraccia, anche se di tanto in tanto emergono dichiarazioni in direzione di un orizzonte unitario. Lo menzionano sia dirigenti di Ecr che di Id, tra cui il leader della Lega Salvini, mentre il premier ungherese Orbán – il cui Fidesz rimane al momento tra i non iscritti a Strasburgo, con Ecr ancora divisa sulla sua adesione – che chiede di unire le forze della destra europea, se non si vuole «ignorare la volontà degli elettori». Non è poi passato inosservato come, preparandosi al semestre di presidenza, con inizio a luglio, l’Ungheria abbia rubato lo slogan trumpiano: «Make Europe great again». Così nel complesso, contando sui nuovi acquisti, i raggruppamenti neri terranno le loro sessioni costitutive dopo tutti gli altri: il 26 giugno Ecr, il 3 luglio Id, quando andrà anche sciolto il nodo di AfD, espulso da Id dopo il caso Krah.
Infine, nella partita delle nomine, entra in gioco anche la Nato. Lo certifica il segretario generale Stoltenberg, che definisce «molto vicina» l’intesa su Mark Rutte come suo successore. Merito di Orbán, che ha tolto il veto sul nome del premier olandese uscente, dopo aver avuto rassicurazioni sulla possibilità di non partecipare alle attività alleate in Ucraina. Anche la Slovacchia sostiene Rutte
VENGO ANCH'IO. La leader non ha digerito il plateale isolamento di Fdi. Ora gioca le sue carte puntando anche sulle tensioni tra popolari e socialisti. Incalza il fronte destro ed è anche inevitabile che torni in primo piano la riforma del Mes
Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen a un meeting a Bruxelles - foto Ap
La candidata per la presidenza della Commissione sarà Ursula von der Leyen, anche se la cena che avrebbe dovuto consacrare la sua candidatura è stata un fallimento. Il Ppe, per bocca del presidente Weber e del delegato a trattare Tusk, quasi già lo annuncia: «Siamo molto vicini all’accordo». Il voto del Parlamento, previsto per il prossimo 18 luglio, però resta a rischio e il nodo principale è il rapporto con la premier italiana e con il suo partito.
La levata di scudi di Giorgia Meloni nella cena di Bruxelles ha colto tutti di sorpresa eppure era quasi un atto dovuto. Inutile indagare su quale richiesta della premier italiana fosse stata cestinata per provocare quella reazione, il congelamento del poker di nomi per i vertici istituzionali europei: la discussione sull’assegnazione dei commissari ai vari Paesi non è stata neppure sfiorata. Meloni ha reagito a una messa in scena che aveva l’obiettivo preciso di evidenziare il suo isolamento e la sua superfluità. Le decisioni sono state prese non solo senza discuterle con lei ma senza neppure informarla, in una ostentazione di scortesia diplomatica che ha sorpreso anche molti dei capi di governo seduti intorno al tavolo imbandito. Per una premier che da due anni si vanta di aver restituito all’Italia una postazione centrale in Europa non si possono immaginare umiliazione e danno politico maggiori.
Macron e Scholz, d’altra parte, non disponevano di altre armi per rendere concreto il loro rifiuto di trattare con la destra di Ecr. Nessuno può vietare a chicchessia di votare per un candidato e tenere ai margini la leader tornata infrequentabile dopo due anni di flirt assegnando al suo Paese un commissario di serie b non è facile, trattandosi del terzo Paese dell’Unione. La messa in scena era d’obbligo, la reazione dell’umiliata e offesa pure.
Il rinvio risponde però anche a calcoli tattici. Meloni ritiene di poter avere tra dieci giorni, quando il Consiglio si riunirà stavolta in via ufficiale per definire le quattro candidature, carte migliori di quante non ne avesse nella disastrosa cena. È possibile che vada davvero così. Sui rapporti con la destra più presentabile, cioè quella atlantista, il Ppe è diviso. Lunedì a Bruxelles è emersa l’ala che vuole relegare tutta la destra ai margini. Tusk ha agito di concerto con Macron e Scholz sottolineando che «non serve chiedere i voti a Meloni: abbiamo la maggioranza da soli». Ieri si è fatta sentire l’altra sponda, con il presidente del partito Weber attestato sulla posizione opposta: «I cittadini hanno votato. La Ue è di centrodestra e bisogna tenerne conto nelle nomine».
Il Ppe inoltre non sembra disposto a fare concessioni di sorta ai Verdi. In questi 10 giorni quei fondamentali voti di rincalzo potrebbero svanire e a quel punto il soccorso della trentina di voti Ecr di cui dispone Meloni potrebbe rivelarsi decisiva, a fronte del possibile plotone di franchi tiratori.
Se sul nome della presidente della Commissione nessuno ha avanzato vere obiezioni, poi, la stessa cosa non può dirsi per gli altri top jobs. I popolari ingoiano di malavoglia il socialista portoghese Costa come presidente del Consiglio europeo e insistono per la staffetta con un esponente del Ppe dopo due anni e mezzo. I socialisti escludono la possibilità ma reclamano la staffetta per la presidenza del Parlamento, che la maltese Roberta Metsola dovrebbe cedere a un socialista a metà mandato. Le tensioni tra i due principali partiti creerebbero un varco nel quale Meloni avrebbe gioco facile nell’incunearsi.
Infine c’è una questione di numeri. Oggi Ecr è il quarto partito ma i liberali di Renew vantano appena tre seggi in più e con un centinaio di deputati perduti senza collare non è escluso che il rapporto di forza si rovesci di qui al 27 giugno. Meloni ha carte da giocare per ottenere quel riconoscimento politico che le serve per fornire a von der Leyen un “appoggio esterno” senza finire maciullata nel tritacarne del riassetto dei gruppi di destra nell’europarlamento. Ma deve vedersela anche con qualche nuova minaccia: è inevitabile che la riforma del Mes, con la firma negata dall’Italia, torni in primo piano come “prova” dell’europeismo della ex sovranista non abbastanza pentita
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