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Comunità attaccate e distrutte, palestinesi picchiati e minacciati: così in pochi mesi i coloni israeliani, braccio del governo, hanno svuotato 18 villaggi in Cisgiordania e allargato gli insediamenti. L’altra faccia dell’espulsione, mentre a Gaza l’offensiva non frena

ISRAELE/PALESTINA. Inchiesta di Forbidden Stories sulla cacciata di 18 comunità palestinesi in Cisgiordania

 Palestinesi in fuga dal villaggio beduino di Wadi al-Siq a causa delle violenze dei coloni - foto di Omri Eran-Vardi

L’11 ottobre 2023, Omri Eran-Vardi è arrivato a Wadi al-Siq, una comunità collinare nel deserto della Cisgiordania, a est di Ramallah, immersa tra pascoli di pecore e dolci colline. Eran-Vardi, fotoreporter e attivista israeliano, era venuto a sapere che i coloni israeliani avevano minacciato di sfrattare la comunità beduina, composta da circa 200 persone. Quel giorno, Eran-Vardi (che ha accettato di condividere pubblicamente il suo racconto per la prima volta con +972 Magazine, partner di questo progetto) ha iniziato a documentare lo sfratto e a parlare con i residenti.

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COMMISSIONE. Indirizzata ai capi di stato e di governo dei paesi membri. Rivendica anche la cooperazione con la Libia. La premier italiana apprezza, a denti stretti

La lettera di Ursula: sull’immigrazione la Ue continuerà ad andare a destra Centro italiano di detenzione a Shengjin, in Albania - Ap

Nella lettera inviata dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen ai capi di Stato e di governo, a poche ore dal primo Consiglio europeo post-voto, c’è un unico tema: l’immigrazione. È quello che, al di là delle sfumature nei toni e nelle posizioni formali, fa convergere un arco di forze più largo della maggioranza di socialisti, liberali e popolari, includendo pezzi di estrema destra. Principalmente italiana.

«Quando si guarderà al passato il 2024 sarà considerato un anno fondamentale per la politica Ue in materia di migrazione e asilo, con l’adozione e l’entrata in vigore del Patto», recita l’incipit. Si riferisce al regolamento votato alla fine della scorsa legislatura che segna il passaggio dall’Europa fortezza all’Europa prigione, proponendosi di incarcerare lungo le frontiere esterne decine di migliaia di richiedenti asilo durante l’esame «accelerato» delle loro richieste di protezione. Una vergogna permessa dai voti di socialisti (a eccezione del Pd), liberali, popolari e Fratelli d’Italia.

A che serve l’estrema destra quando i moderati sono questi? A nulla, almeno sul tema migratorio. Rispetto al quale la lettera, un contentino alla premier italiana tagliata fuori dai giochi che contano sulle nomine, serve a indicare la continuità dell’azione politica comunitaria nei prossimi cinque anni. Continuità con la progressiva apertura all’impostazione di Giorgia Meloni, e dei precedenti governi italiani anche di centro-sinistra, che ha il suo perno negli accordi con i regimi dei paesi che circondano il Mediterraneo.

A partire da quello siglato un anno fa dal «Team Europe», Meloni-von der Leyen-Rutte, con il tunisino Saied. La presidente della commissione lo ricorda insieme a quelli seguiti a ruota: con la Mauritania, firmato insieme al leader socialista spagnolo Sánchez, con l’Egitto di Al-Sisi e con il Libano. Menzione a parte merita la rivendicazione della cooperazione con la Libia, paese trasformato in un centro di schiavitù e tortura dei migranti subsahariani dall’esternalizzazione della frontiera Ue. Von der Leyen sostiene di essere a lavoro su «alternative alla detenzione per donne e bambini». Chissà, forse un giorno potranno evitare gli stupri dei carcerieri finanziati dall’Europa. Per gli uomini pazienza, come quelli ritratti nudi davanti ai loro secondini in un video pubblicato martedì da Refugees in Libya. È girato nel centro di Bir Ghanam, a sud di Zawyia, una struttura gestita dal dipartimento immigrazione del governo tripolino di Dbeibah.

La lettera ai paesi membri sottolinea poi l’impegno, nazionale e comunitario, a trovare «strategie innovative per prevenire la migrazione irregolare affrontando le richieste di asilo lontane dalla frontiera esterna dell’Ue». Anche qui è Meloni a dettare la linea con il suo progetto albanese. Gli altri seguono, al di là del colore politico. Su tutti il governo tedesco, con il forte interessamento del cancelliere Scholz e della ministra dell’Interno Faeser, entrambi socialdemocratici.

Così mentre al parlamento italiano la premier promette di continuare la battaglia per provare a pesare in Europa, non può che esprimere soddisfazione per la lettera di von Der Leyen: l’approccio anti-migranti rimarrà «al centro delle priorità anche nel prossimo ciclo istituzionale». Del resto nella missiva la parola «diritti» ricorre due volte, quella «frontiera» sedici e la «solidarietà» è intesa solo come legame tra Stati, mai nei confronti delle persone in fuga da guerre e povertà. Sulle politiche migratorie l’estrema destra non ha bisogno di stare nella maggioranza, è maggioranza. Nei contenuti.

 

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Nera per essere stata formalmente esclusa dal patto per le nomine europee, Meloni è pronta a salire a bordo con von der Leyen, un po’ di nascosto. La candidata alla Commissione Ue ne ha bisogno e ne condivide le scelte di destra, come scrive in una lettera sui migranti

CLANDESTINA. La premier, esclusa dall’intesa sugli incarichi di vertice, attacca in parlamento: «La logica del consenso scavalcata dai caminetti»

Meloni furiosa verso l’astensione nel Consiglio Ue Giorgia Meloni durante le comunicazioni al Senato in vista del Consiglio europeo - foto LaPresse

Furiosa come non la si era mai vista e non solo per l’influenza che la rende febbricitante. Nelle aule di camera e senato per la tradizionale relazione alla vigilia delle riunioni del Consiglio europeo Giorgia Meloni non nasconde massima irritazione e del resto se anche ci provasse non ce la farebbe.

Antonio Tajani

Per garantire la stabilità serve aprire un confronto con i Conservatori. Non faremo mai accordi con i Verdi. Con i Verdi per noi diventa difficile votare

L’umiliazione che ha subìto per la seconda volta consecutiva in Europa brucia troppo. «La logica del consenso viene scavalcata da quella dei caminetti nei quali alcuni pretendono di decidere per tutti. Una sorta di conventio ad excludendum in salsa europea che non intendo accettare», dichiara a spada sguainata. La minaccia è esplicita: «Ci sono tre partiti che si considerano maggioranza in Europa e distribuiscono incarichi apicali. Lo vedremo in Parlamento col tempo». E, rispondendo a un intervento dell’opposizione: «Dite che la maggioranza esiste e resiste? Che resista è certo, se esiste lo vedremo col tempo». A Strasburgo una maggioranza stabile non esiste. Si forma per lo più sui singoli voti e ciò lascia ampio spazio di manovra a un gruppo forte e in grado di fare sponda con il resto della destra. La minaccia della Giorgia furiosa non è priva di fondamento.

Non sono i contenuti a mandare la premier fuori di sé. Da quel punto di vista potrebbe dirsi soddisfatta. Le è stato promesso un commissario di serie A con tanto di vicepresidenza esecutiva e non è mai successo che a un partito esterno agli accordi di maggioranza venga assegnato il ruolo esecutivo. Nell’impostazione strategica la politica dell’immigrazione, per come è stata illustrata ieri nella lettera di von der Leyen, potrebbe averla dettata direttamente lei. Sulla guerra in Ucraina l’intesa è totale e anche il passo indietro sul green deal non manca.

IL PROBLEMA È LA FORMA, che in questi casi diventa però sostanza. Per prassi al terzo gruppo per numero di eurodeputati spetta

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'Ringrazio la diplomazia silenziosa, per me 14 anni duri"

- RIPRODUZIONE RISERVATA

La madre di Julian Assange ha detto oggi che il "calvario sta finalmente giungendo al termine" per il fondatore di Wikileaks.
    In una dichiarazione ai media australiani in seguito alla notizia di un patteggiamento con la giustizia americana, Christine Assange ha affermato di essere "grata che il calvario" del figlio "stia finalmente giungendo al termine: ciò dimostra l'importanza e il potere della diplomazia silenziosa.

Assange patteggia con la giustizia Usa ed è libero, ha lasciato il Regno Unito

Dopo 5 anni in prigione il fondatore di Wikileaks potrà tornare in Australia. Prima l'udienza in un territorio americano del Pacifico
 

ROMA, 25 giugno 2024, 07:50

Redazione ANSA

ANSACheck
 
Julian Assange released from prisonafter striking deal with US justice department © ANSA/EPA

 Julian Assange released from prisonafter striking deal with US justice department © ANSA/EPA

 

Julian Assange è libero e ha lasciato ieri il Regno Unito e la prigione vicino Londra dove era stato incarcerato per cinque anni, ha annunciato oggi WikiLeaks dopo la notizia dell'accordo di dichiarazione di colpevolezza raggiunto con la giustizia americana.

 

 

Il fondatore di Wikileaks "ha lasciato il carcere di massima sicurezza di Belmarsh la mattina del 24 giugno, dopo avervi trascorso 1901 giorni. Gli è stata concessa la libertà su cauzione dall'Alta corte di Londra ed è stato rilasciato nel pomeriggio all'aeroporto di Stansted, dove si è imbarcato su un aereo ed è partito dal Regno Unito", si legge in un comunicato pubblicato sull'account X dell'organizzazione. "Questo è il risultato di una campagna globale che ha coinvolto organizzatori di base, attivisti per la libertà di stampa, legislatori e leader di tutto lo spettro politico, fino alle Nazioni Unite. Ciò ha creato lo spazio per un lungo periodo di negoziati con il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, che ha portato a un accordo che non è stato ancora formalmente finalizzato", viene specificato da Wikileaks. "Assange dopo più di cinque anni in una cella di 2x3 metri, isolato 23 ore al giorno, presto si riunirà alla moglie Stella Assange e ai loro figli, che hanno conosciuto il padre solo da dietro le sbarre", conclude la nota.

Assange, ha accettato di dichiararsi colpevole di un reato relativo al suo ruolo in una delle più grandi violazioni di materiale classificato americano, come parte di un accordo con il Dipartimento di giustizia Usa che gli consentirà di evitare la reclusione negli Stati Uniti e di tornare in Australia. Lo riferisce la Cnn, citando documenti recentemente depositati presso il tribunale. Il patteggiamento deve ancora essere approvato da un giudice federale. Secondo i termini del nuovo accordo, i pubblici ministeri del dipartimento di giustizia chiederanno una condanna a 62 mesi, che equivale agli oltre cinque anni che Assange ha scontato in un carcere di massima sicurezza a Londra mentre combatte contro l'estradizione negli Stati Uniti. Il patteggiamento riconoscerebbe il tempo gia' trascorso dietro le sbarre, consentendo ad Assange di tornare immediatamente in Australia, il suo paese natale. Il fondatore di Wikileaks è accusato di 18 capi di imputazione in una incriminazione del 2019 per il suo presunto ruolo nella diffusione di carte top secret, reato che comporta un massimo di 175 anni di prigione, anche se e' altamente improbabile che possa essere condannato ad una simile pena. Assange era perseguito dalle autorità statunitensi per aver pubblicato documenti militari riservati forniti dall'ex analista dell'intelligence dell'esercito Chelsea Manning nel 2010 e nel 2011. Funzionari statunitensi hanno affermato che Assange ha spinto Manning a ottenere migliaia di pagine di dispacci diplomatici statunitensi non filtrati che potenzialmente mettevano in pericolo fonti riservate, rapporti di attività significative legate alla guerra in Iraq e informazioni relative ai detenuti di Guantánamo Bay. Il presidente Joe Biden negli ultimi mesi ha alluso a un possibile accordo promosso dai dirigenti del governo australiano per riportare Assange in Australia. Funzionari dell'Fbi e del dipartimento di giustizia si sono opposti a qualsiasi accordo che non includesse una dichiarazione di colpevolezza da parte di Assange, hanno riferito alla Cnn persone informate sulla questione. Il mese scorso, un tribunale del Regno Unito ha stabilito che Assange aveva il diritto di fare ancora appello contro l'estradizione negli Stati Uniti, regalandogli una vittoria nella sua lotta durata anni per evitare il processo negli Stati Uniti per i suoi presunti crimini

 

 

Molti - ha aggiunto - hanno sfruttato la situazione di mio figlio per portare avanti i propri programmi, quindi sono grata a quelle persone invisibili e laboriose che hanno messo al primo posto il benessere di Julian.

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EUROPA. La premier gioca la partita delle nomine per la Commissione; l’ungherese, escluso dalle trattative per i top job, fa il duro. I tedeschi di AfD lavorano a un nuovo gruppo al parlamento Ue: i Sovranisti

Il primo ministro ungherese Viktor Orbán e Giorgia Meloni durante la conferenza stampa foto Ansa Il primo ministro ungherese Viktor Orbán e Giorgia Meloni durante la conferenza stampa - foto Ansa

Su demografia e immigrazione, le parole d’ordine sono le stesse: quelle della destra radicale. Imbarazzo invece, sulle prospettive politiche europee, su cui restano divisi. Giorgia Meloni e Viktor Orbán si erano già visti una settimana fa a Bruxelles, in una sede non istituzionale, per registrare accordi e disaccordi sulle nomine europee e sulle strategie future delle destre europee. Ieri il primo ministro ungherese è arrivato a Roma per una visita alla presidente del Consiglio, questa volta a Palazzo Chigi, nell’ambito del tour delle capitali, tra Berlino prima e Parigi domani.

OCCASIONE FORMALE, quella della presidenza di turno ungherese, con inizio a luglio. Ma i temi sul piatto sono di nuovo quelli delle trattative per i top jobs europei, il sostegno a Ursula von der Leyen e quello a Kiev: due posizionamenti in apparenza inestricabili. Le decisioni sulle nomine dovrebbero concretizzarsi al prossimo Consiglio europeo di giovedì e venerdì, che riunirà a Bruxelles i leader dei Ventisette. E tutto lascia pensare che il premier ungherese e la presidente del Consiglio italiana abbiano strategie diverse, pur condividendo un comune terreno dei valori.
L’allineamento internazionale è il maggior elemento di frattura. Le solide credenziali atlantiste della leader di FdI sono agli antipoli di Budapest, che in una settimana cruciale per l’appoggio europeo all’Ucraina, torna a opporsi agli strumenti finanziari messi in campo dall’Ue per gli aiuti militari. Ancor prima del bilaterale romano, gelando gli auspici di Tajani («il veto di Budapest sugli aiuti all’Ucraina potrebbe sbloccarsi con il dialogo»), il ministro degli Esteri Péter Szijjártó ha affermato che Bruxelles «sta superando i limiti», col destinare altri 1,4 miliardi di euro per la fornitura di armi all’Ucraina e proponendo l’invio di addestratori militari nel paese. Gli stanziamenti dello European peace facility sono stati decisi contro la volontà di Budapest. «Una violazione senza precedenti delle regole comuni europee», rincara il ministro.

PARLANDO PER PRIMA nel corso della dichiarazione congiunta, in seguito al colloquio con Orbán a Palazzo Chigi, Meloni prova a smussare. Evidenziare i punti di contatto con Budapest e le convergenze con il programma ungherese per il semestre di presidenza. Definisce «non scontata» la decisione di inserire «una sfida» come quella demografica. Si allinea con alla politica anti-immigrazione, di cui Orbán è stato negli ultimi anni campione di disumanità. In cambio, riceve da Orbán apprezzamento sulla strategia italiana per l’Africa.

Sono i paesi dei Balcani occidentali, non certo l’Ucraina, la prospettiva dell’allargamento di Orbán, quelli che «sono in attesa da più da 15 anni», rimarca l’ungherese, alludendo invece all’accelerazione Ue verso Ucraina e Moldavia. Ma è sul processo della scelta delle cariche di vertice, che Orbán va giù duro: «Ci sono tre partiti che formano una coalizione e si dividono i principali incarichi senza coinvolgere gli altri. È una fisiologia che non risponde al progetto europeo». Come a dire: il processo si è politicizzato nel tempo, e questo non va bene. Meloni, che stavolta la partita per la Commissione ha deciso di giocarla, tace ma non può concordare.

INTANTO, SI VA VERSO la costituzione di un nuovo gruppo di estrema destra al Parlamento europeo. In una settimana decisiva anche per la formazione dei raggruppamenti politici a Strasburgo, l’iniziativa che dovrebbe portare al nuovo gruppo i Sovranisti parte da AfD, il partito tedesco espulso da Identità e democrazia (Id), che fa capo a Le Pen e Salvini, dopo lo scandalo di presunti finanziamenti da Mosca che ha coinvolto il suo leader Maximilian Krah. Della nuova famiglia politica dovrebbero far parte, oltre ai 15 eletti del partito tedesco, anche diverse altre delegazioni, dalla Romania alla Spagna, dalla Grecia a Slovacchia e Polonia, fino all’ungherese Mi Hazank Mozgalom (Movimento Nostra Patria), che si colloca più a destra dell’orbaniano Fidesz. Sarebbero così soddisfatti i criteri di almeno 23 deputati da 7 doversi paesi.

DAGLI APPARENTAMENTI parlamentari rimangono fuori, per ora, proprio i 10 eurodeputati del partito di Orbán. Potrebbero forse trovare compagni di viaggio tra gli eurodeputati cechi di Smer in un’ulteriore raggruppamento nero. Ma di certo l’ipotesi di entrare in Ecr, a lungo caldeggiata dal leader ungherese anche grazie ai buoni rapporti con Meloni, è tramontata la scorsa settimana dopo la richiesta del capogruppo Procaccini, luogotenente di Meloni, di un’assicurazione scritta in favore di Kiev per chi volesse farne parte. A complicare il quadro, i polacchi del Pis minacciano l’uscita dai Conservatori, per mettere pressione a FdI in direzione di un’apertura a Fidesz, oltre che al partito di Le Pen, perno del gruppo Id.
Il fatto è che più di tutto, per Roma adesso conta portare a casa un nome gradito nella prossima Commissione Ue, anche puntando sul potere negoziale dei voti FdI, che non possono dispiacere a von der Leyen: è la realpolitik formato destra

 

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QUALCOSA IN COMUNE Firenze, Bari, Perugia, a sorpresa anche Potenza e Campobasso. Sale ancora l’astensione e il centrosinistra fa fatica lontano dai centri urbani, ma vince i ballottaggi nelle principali città (tranne Lecce). Un buon segnale per Schlein e una spinta per l’alleanza, da costruire

Elly Schlein con Giuseppe Conte e Nicola Fratoianni durante una manifestazione a Roma foto di Angelo Carconi/Ansa

I 14 ballottaggi nei capoluoghi di provincia finiscono 7-5 per il centrosinistra, con due successi civici. Pd e alleati si confermano a Bari, Firenze, Campobasso e Cremona e conquistano Perugia, Potenza e Vibo Valentia. Le destre si consolano con Rovigo, Urbino, Vercelli, Caltanissetta e Lecce. A Verbania e Avellino vincono due civici.

DUE SETTIMANE FA erano stati assegnati al primo turno altri 15 capoluoghi, con un risultato di 10-5 per i progressisti (tra queste spiccavano le vittorie di Cagliari e Bergamo, mentre le destre confermavano la guida di Pescara e Ferrara). Il dato finale dunque è di 17 città contro 10: rispetto a 5 anni fa, quando la situazione era in sostanziale equilibrio, si registra un’avanzata del centrosinistra, ancora più rilevante visto che nel frattempo le destre hanno vinto le politiche del 2022 e a palazzo Chigi è arrivata Giorgia Meloni.

In questo contesto, vincere in 6 capoluoghi di regione su 6 per Pd e alleati non è una cosa da poco. In particolare in una regione, come la Basilicata, dopo ad aprile le destre avevano stravinto le regionali mentre in questo fine settimane la ricomposizione tra le forze progressiste (dopo i traumi di questa primavera che hanno prodotto una spaccatura anche dentro il Pd che non ha presentato il simbolo)) ha consentito a Vincenzo Telesca di battere col 64,9% il candidato della destra Francesco Fanelli che era indicato come grande favorito della vigilia.

Per non parlare di Perugia, governata da dieci anni dal centrodestra, dove all’inizio della campagna l’outsider Vittoria Ferdinandi veniva considerata, anche dentro il Pd, un azzardo e invece si è imposta col 52% in un ballottaggio durissimo. «Si può battere la destra con un profilo di cambiamento», gongola Nicola Fratoianni che ha sostenuto da subito la sua candidatura. Un campo largo che si è replicato a Campobasso, dove un’altra civica, l’ex provveditrice Maria Luisa Forte, partiva con 15 punti di distacco e ha ribaltato la partita (per un soffio).

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