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Il partito di estrema destra di Marine Le Pen e Jordan Bardella ha ottenuto più del 33 per cento dei voti, ma molto si deciderà al secondo turno in programma il 7 luglio

Marine Le Pen dopo l'annuncio dei risultati per il primo turno delle elezioni legislative in Francia (AP Photo/Thibault Camus) Marine Le Pen dopo l'annuncio dei risultati per il primo turno delle elezioni legislative in Francia (AP Photo/Thibault Camus)

Al primo turno delle elezioni legislative francesi il Rassemblement National (RN) – il partito di estrema destra di Marine Le Pen e Jordan Bardella alleato con Eric Ciotti, il presidente dei Repubblicani, di destra – è di stato nettamente il più votato: ha ottenuto il 33,2 per cento dei voti, un risultato quasi doppio rispetto a quello delle elezioni legislative del 2022 quando RN, al primo turno, prese il 18,7 per cento.

Il Nuovo Fronte Popolare (NFP), l’alleanza elettorale di sinistra che riunisce tra gli altri il Partito Socialista, il Partito Comunista, il partito ecologista Europe Écologie-Les Verts e La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, ha ottenuto il 28 per cento, più di quanto aveva preso nel 2022 con la propria precedente alleanza elettorale, NUPES, che si era fermata al 25,6 per cento. Il loro risultato a questo primo turno rimane però inferiore alla somma dei risultati che ciascun partito aveva ottenuto alle elezioni  europee dello scorso 9 giugno (31,6 per cento). Ensemble pour la République, la coalizione del presidente francese Emmanuel Macron che aveva convocato le elezioni in seguito all’ottimo risultato di RN alle europee, si è fermato al 20 per cento. Il quarto partito più votato è stato quello dei Repubblicani, al 6,6 per cento.

Domenica 7 luglio si svolgerà il secondo turno in tutte le circoscrizioni che non hanno eletto un candidato al primo. Avranno accesso al ballottaggio non i due candidati che hanno ottenuto i migliori risultati al primo turno, come succede in Italia, ma tutti quelli che hanno ottenuto più del 12,5 per cento dei voti delle persone iscritte nelle liste elettorali (non dei votanti). A causa dell’elevata partecipazione (66,7 per cento) il ministero dell’Interno ha individuato più di 300 triangolari, cioè ballottaggi in cui i candidati sono tre, e anche qualche quadrangolare, cioè ballottaggi con quattro candidati.

Al primo turno sono stati eletti appena 75 deputati, su un totale di 577. Tra questi, 39 sono di RN in alleanza con Ciotti (e tra loro c’è anche Marine Le Pen), 32 sono di NFP (compresi il socialista Olivier Faure e l’ecologista Sandrine Rousseau) e due della coalizione di Macron.

Commentando i risultati il quotidiano Le Monde ha scritto che «il fallimento è stato totale per il presidente della Repubblica Emmanuel Macron, che

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DOPO L'INCHIESTA DI FANPAGE. «Credo che queste derive che sono venute fuori in modo così eclatante ci siano sempre state, nascoste, non esibite, ma che in parte ci siano sempre state e che con […]

 Liliana Segre - Ansa

«Credo che queste derive che sono venute fuori in modo così eclatante ci siano sempre state, nascoste, non esibite, ma che in parte ci siano sempre state e che con questo governo si approfitti di questo potere grande della destra non ci si vergogni più di nulla».

Così Liliana Segre sull’inchiesta di Fanpage, ieri sera a In Onda, su La7.

Dice ancora Segre: «Anche questi motti nazisti che purtroppo ricordo in modo diretto e non per sentito dire: ora, alla mia età dovrò ancora rivedere questo? Dovrò ancora essere cacciata dal mio paese come sono stata già cacciata una volta?».

«E’ una domanda provocatoria…», osserva la conduttrice .

«È una domanda che è una risposta…», la replica di Segre.

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Oggi si vota, il Rassemblement National di Marine Le Pen in testa a tutti i sondaggi, il generoso Nuovo Fronte Popolare insegue, il centrodestra di Macron annullato in mezzo. Una bomba si aggira per l’Europa, può chiudere un’epoca difficile e aprirne una decisamente peggiore

FRANCIA. Si vota, i sondaggi danno il Rassemblement National primo al 35%. Macron pare aver perso la scommessa. Può chiudersi un’epoca

Marie Le Pen Ap Marine Le Pen - Ap

È il Brexit francese? Certo il voto delle legislative del 30 giugno e del 7 luglio non sarà un vero e proprio Frexit, cioè un’uscita dalla Ue e tanto meno dall’euro, ma come il voto britannico di otto anni fa, rischia di essere un segnale di chiusura su se stessi, di ripiego, di rigetto dell’altro da sé, che avrà forti conseguenze in Europa.

I sondaggi annunciano un’estrema destra complessivamente intorno al 35%, il Nuovo Fronte Popolare al 29% e il centro appena sotto il 20%. Le previsioni del risultato finale sono difficili, viste le modalità di voto – un maggioritario a due turni, diviso in 577 circoscrizioni, ognuna con delle particolarità specifiche – il tasso di partecipazione, che si annuncia in netta crescita rispetto alle precedenti elezioni, cambia alcune carte in tavola, con la possibilità di più di due candidati al secondo turno (per essere presenti, oltre ai primi due arrivati, bisogna aver ottenuto più del 12,5% degli iscritti). Ma si può già scommettere che per il campo di Macron non ci saranno belle sorprese: il centro, che aveva proposto il superamento degli schieramenti destra-sinistra, è schiacciato tra i due blocchi, come alla fine di un ciclo, estremamente breve. «Il presidente ha ucciso la sua maggioranza» accusa l’ex primo ministro Edouard Philippe, che già pensa all’Eliseo per il 2027.

L’ESTREMA DESTRA ormai domina su una destra di governo boccheggiante e ormai spaccata dallo strappo del presidente dei Républicains, Eric Ciotti, che ha abbracciato il Rassemblement National. Mentre la sinistra, che è riuscita a unirsi nel Nuovo Fronte Popolare, ha suscitato speranze e farà probabilmente un buon primo turno, ma avrà difficoltà al secondo, ad attirare un “fronte repubblicano” per sconfiggere il Rassemblement National. Lo storico Patrick Boucheron parla di «sentimento appiccicoso dell’inevitabile», come un torpore che poco per volta domina, scoraggia e deprime. Nella breve campagna elettorale sono stati i sentimenti – e le illusioni – a prevalere, non la ragione, diventata inudibile. L’eventualità dell’arrivo dell’estrema destra al potere in Francia sarà una bomba devastante per tutta Europa. Parigi debole, con due teste in conflitto, l’asse franco-tedesco insabbiato, freno alle iniziative per il futuro… La fine di un’epoca.

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VERSO LE ELEZIONI. Il gruppo del magnate bretone è stato ammonito dall’Autorità francese dei media per il sostegno al partito di Le Pen e Bardella

Bardella (Ansa) Bardella - Ansa

Si è conclusa la campagna elettorale per il primo turno delle legislative anticipate francesi. Una campagna d’inedita brevità (appena due settimane), che vede in testa il Rassemblement National di Marine Le Pen e Jordan Bardella, tallonati dal Nuovo Fronte Popolare delle sinistre francesi, con il partito di Macron in terza posizione.

Durante queste due settimane, è emersa tutta la parzialità e tutta la potenza di quello che il New York Times ha definito «Fox News à la française»: ovvero, il gruppo mediatico ultra-reazionario e xenofobo di proprietà del magnate bretone Vincent Bolloré, proprietario di due canali televisivi (C8 e la rete all-news CNews, la più seguita del paese), del colosso del cinema e della tivù Canal+, di settimanali come Paris Match e Le Journal du Dimanche, della radio Europe 1, oltre al gruppo editoriale Hachette. Una galassia che ha fatto una campagna martellante per l’estrema destra, come rilevato dal gendarme delle telecomunicazioni francese, l’Arcom.

In un comunicato diramato giovedì (24 ore prima della fine della campagna elettorale), l’Arcom ha criticato in particolare la radio Europe 1 (acquisita da Bolloré l’anno scorso) e Cyril Hanouna, la star del gruppo Bolloré, titolare di una trasmissione televisiva su C8 e di una radiofonica su Europe 1, quest’ultima creata appositamente per la campagna elettorale.

SECONDO L’ARCOM, nella trasmissione di Hanouna su Europe 1, la sinistra «è stata trattata in maniera sistematicamente critica e virulenta, in termini peggiorativi e oltraggiosi». Tra il 17 e il 26 giugno, l’Arcom ha contabilizzato come su 29 invitati, 16 «rappresentavano o sostenevano dei partiti del blocco dell’estrema destra, contro sette del partito presidenziale e due del Nuovo Fronte Popolare».

Troppo poco, troppo tardi, secondo Claire Sécail, ricercatrice del Cnrs e specialista del polo mediatico reazionario di Bolloré. L’avvertimento dell’Arcom «arriva troppo tardi per il sussulto istituzionale» del quale vi sarebbe bisogno, ha scritto la ricercatrice su X, per la quale si tratta dell’ennesima infornata di «multe inutili» che, alla fine, costituiscono «un via libera all’impunità».

COME HA SCRITTO Le Monde in un articolo di due settimane fa, l’obiettivo della galassia dei media «bollorizzati» è «orchestrare l’alleanza tra l’Rn e la destra tradizionale». Un obiettivo riuscito, vista l’alleanza siglata con Le Pen da Eric Ciotti, il segretario dei Républicains (il partito di centro-destra), malgrado la polemica interna al partito.

Un obiettivo perseguito addirittura in diretta tv: il 15 giugno, durante la trasmissione di punta del canale C8 (proprietà di Bolloré), Cyril Hanouna – sempre lui – ha accolto in studio Sarah Knafo, braccio destro di Éric Zemmour, obbligandola a chiamare al telefono Jordan Bardella, con l’intento di formare una grande coalizione della destra. «Jordan, ci conosciamo da quando abbiamo 17 anni», ha detto Knafo dopo il bip della segreteria telefonica, mentre Hanouna gli tendeva un telefono vicino al viso, «abbiamo adesso un’occasione unica per salvare le nostre idee».

IL PANTAGRUELICO APPETITO di Bolloré non conosce limiti e, ultimamente, sembra costituire un modus operandi volentieri imitato da altri miliardari con agende ultra-reazionarie. Negli ultimi giorni la possibile cessione del settimanale Marianne (conservatore sui temi sociali e sovranista su quelli economici) al miliardario 50enne Pierre-Edouard Stérin, ha suscitato grande indignazione nel mondo del giornalismo francese.

Dopo un’inchiesta pubblicata da Le Monde mercoledì scorso, la redazione di Marianne ha iniziato ieri uno sciopero per chiedere lo stop definitivo a ogni negoziato. Secondo Le Monde, infatti, Stérin avrebbe sostenuto e finanziato alcuni candidati dei Républicains favorevoli all’alleanza con il Rn tramite la propria fondazione personale, oltre ad aver comprato una magione di proprietà dei Le Pen per 2.5 milioni di euro a novembre. Quello che sembrava un «impegno politico personale» si è rivelato essere «una vera e propria strategia» per favorire il Rn, hanno scritto i giornalisti del settimanale in un comunicato diffuso sui social.

IERI POMERIGGIO, il proprietario di Marianne, il magnate Daniel Kretinsky, ha annunciato all’agenzia di stampa Afp di aver messo in pausa i negoziati almeno fino al 21 luglio. I giornalisti, tuttavia, temono che si tratti di una manovra per rimandare la vendita «a un momento nel quale il contesto politico sarà più calmo e la vendita farà meno rumore», ha detto una rappresentante della società dei redattori all’agenzia.

Libertario sui temi economici, Pierre-Edouard Stérin è un cattolico tradizionalista, feroce oppositore del diritto all’aborto e a quello che l’area reazionaria francese chiama wokismo. Non deve stupire, quindi, che figuri tra i finanziatori delle campagne elettorali di Marine Le Pen e di Éric Zemmour del 2022, come ha riportato Le Monde.

A queste sponsorizzazioni, l’estrema destra francese ha saputo aggiungere un elemento: l’abilità nell’utilizzo dei social. L’account TikTok di Jordan Bardella conta, a oggi, 1.7 milioni di abbonati, meno di Macron (4.5 milioni) e di Mélenchon (2.7) ma più di Marine Le Pen (1 milione).

Un successo dovuto alla presenza storica dell’estrema destra su Internet, ma la cui efficacia resta, per ora, ancora incerta, almeno in termini strettamente elettorali: alle europee, tra i 18 e i 24 anni, il partito più votato è stato La France Insoumise, seguita però dal Rn. Una tendenza che ricorda per certi versi la chiusura del «gender gap» operata da Marine Le Pen quando ha preso le redini del partito (che allora si chiamava ancora Front National) nel 2011, riuscendo ad attirare un voto femminile la cui mancanza, fino ad allora, aveva costituito una delle debolezze principali dell’estrema destra francese

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RIFORME. La raccolta delle firme (restando auspicabili anche delibere dei consigli regionali) ai banchetti (molto meno efficace in tal senso è la firma con il click), come la campagna referendaria, attivano partecipazione, di per sé antidoto allo svuotamento della democrazia e alla deriva autoritaria del premierato

Napoli, no all’autonomia differenziata a Piazza Plebiscito foto da X Napoli, no all’autonomia differenziata a Piazza Plebiscito - foto da X

Il Presidente della Repubblica ha promulgato la legge Calderoli; è ora del referendum, per dare voce a un controcanto, in difesa dell’uguaglianza e della democrazia sociale. L’autonomia differenziata che si profila è devastante per la democrazia.

Ne inaridisce la linfa, l’uguaglianza, territoriale e sociale; le toglie il nutrimento necessario, la garanzia dei diritti sociali (non surrogabile da fantomatici lep, stretti nella morsa dell’invarianza di bilancio e atti a giustificare la dimidazione della tutela). È una attuazione della Costituzione incostituzionale, quindi, occorre ricorrere a tutti gli strumenti a disposizione. Fra questi, il ricorso in via principale alla Corte costituzionale (promosso da una o più regioni entro i 60 giorni dalla pubblicazione della legge) e il referendum abrogativo. Quest’ultimo veicola effetti ulteriori: richiede presenza nei territori e può incentivare un radicamento della rappresentanza; favorisce la costruzione di sinergie tra i movimenti che attraversano la società e i partiti; promuove la composizione di un controcanto.

Non si tratta di ascoltare le sirene del “dare la voce al popolo”, cedendo a suggestioni plebiscitarie e in linea con l’acclamazione del capo, ma, al contrario, di innescare attraverso la campagna referendaria dinamiche di partecipazione effettiva.

Ampliando lo sguardo, il referendum è una occasione per spezzare l’autoreferenzialità del circuito politico-rappresentativo; le argomentazioni del no (l’«uomo che dice no… se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì», ricorda Camus) propongono un’altra politica, altra nei contenuti e nei modi. Troppo per un referendum? Forse sì, ma iniziamo a vederlo come opportunità di cambiamento, con un ottimismo militante (Bloch), un realismo non arreso.

La raccolta delle firme (restando auspicabili anche delibere dei consigli regionali) ai banchetti (molto meno efficace in tal senso è la firma con il click), come la campagna referendaria, attivano partecipazione, di per sé antidoto allo svuotamento della democrazia e alla deriva autoritaria del premierato. Ancora. La battaglia contro l’autonomia differenziata, coinvolgendo – ahimè – molteplici profili, dalla sanità alla scuola, dal lavoro all’ambiente, si presta particolarmente ad una prospettiva di fronte unico. Non solo: è una lotta che chiama in causa la materialità dell’esistenza, le pre-condizioni sociali ed economiche della democrazia, ed in questo senso può riportare sulla scena il conflitto sociale.

Detto questo, resta la consapevolezza dei rischi, giuridici e politici, di cui si è già ragionato in queste pagine. Sotto il profilo giuridico, c’è l’alea del giudizio di ammissibilità della Corte costituzionale. Mi limito a osservare: a) che la legge Calderoli non è costituzionalmente necessaria, e in quanto tale non sottoponibile a referendum, dato che la norma costituzionale delinea già un procedimento (come confermato dalla firma delle pre-intese del 2018); b) che il semplice collegamento con la legge di bilancio non vale ad integrare l’esclusione dal referendum ai sensi dell’articolo 75 della Costituzione.

Quanto al dato politico, se la raccolta delle firme, pur con l’arduo termine del 30 settembre, non pare impossibile se sorretta da una adeguata volontà politica, resta la difficoltà di raggiungere il quorum strutturale (la partecipazione della maggioranza degli aventi diritto), ma questo è sprone all’impegno. La campagna può essere uno strumento per combattere non solo l’astensione dal voto ma in senso ampio la disaffezione politica, l’indifferenza, la passività, assumendo quindi un valore in sé. In questa prospettiva perde rilievo anche il fatto che intese potrebbero essere adottate a prescindere o in deroga alla legge Calderoli, con una diretta applicazione dell’articolo 116, comma 3, della Costituzione, perché il referendum aiuterebbe a creare la consapevolezza politica che può fermarle.

Vincere il referendum sarebbe un segnale politico forte, provarci è necessario per la posta in gioco e perché la campagna referendaria può in ogni caso contribuire alla costruzione di una visione politica alternativa, ancora distante dall’egemonia, ma che almeno inizi ad intonare un controcanto; un controcanto che suona la melodia della Costituzione e porta nella politica la voce del conflitto e della speranza, come elementi necessari per la trasformazione dell’esistente

 

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EDITORIALE. Quando Fanpage ha mostrato come Mieli, per quanto meloniana fino al midollo e di casa tra quelle mura di orgogliosi fascisti, sia poi diventata oggetto di scherno e insulti in quanto ebrea, ecco allora che l’argine si è rotto. E sono arrivate le condanne

Aderenti a Gioventù nazionale ad una manifestazione di Fratelli d'Italia foto di Andrea Sabbadini Aderenti a Gioventù nazionale ad una manifestazione di Fratelli d'Italia - foto di Andrea Sabbadini

Richieste e un po’ troppo attese, le prese di distanza sono finalmente arrivate. E continuano ad arrivare numerose e tutte uguali come quando si rompe un argine o arriva un ordine. Durissimi, ministri e dirigenti di Fratelli d’Italia ora condannano con foga l’antisemitismo dei loro ragazzi, raccontato e mostrato così bene da Fanpage. Cosa c’è che non va? Il tempo e il modo.

Per molti giorni, capi e vice capi di Fratelli d’Italia hanno avvolto di silenzio la prima parte del racconto dai bassifondi meloniani. E se qualche parola hanno detto è stata di critica ai giornalisti che sono entrati in circoli e cantine di Gioventù nazionale, riprendendo braccia tese, inni al duce, cori contro i «negri» e «sieg heil». Hanno taciuto anche quando il nostro giornale, non da solo, in quel video ha riconosciuto tra i partecipanti ai raduni una senatrice del partito di Meloni, Ester Mieli, ex portavoce della comunità ebraica romana. In quel caso, silenzio. Non uno, o una, che abbia fatto notare l’orrida incongruenza, tanto meno la stessa Mieli che tra l’altro è vicepresidente della commissione parlamentare contro i crimini di odio.

Ma quando Fanpage ha mostrato come proprio Mieli, per quanto meloniana fino al midollo e di casa tra quelle mura di orgogliosi fascisti, sia poi diventata oggetto di scherno e insulti in quanto ebrea, ecco allora che l’argine si è rotto. E sono arrivate le condanne.

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Come dice il braccio (flesso) destro di Meloni, Donzelli, «l’antisemitismo è un limite non superabile». Tutto il resto evidentemente sì, si può mettere da parte, si possono nascondere nell’ombra gli inni al duce, le braccia tese, le violenze. Logico e coerente: la linea Meloni-La Russa sul fascismo è sempre stata quella di condannare le leggi razziali, in modo tanto più vibrante e rumoroso quanto necessario a restare in silenzio su tutto il resto.

Mussolini, riconoscono, ha fatto anche cose cattive, la persecuzione degli ebrei appunto. Su tutto il resto glissano, dedicandosi al ma anche, antifascismo «militante» innanzitutto. È nel rispetto di questa linea che Meloni e i suoi possono tacere o sfilarsi quando c’è l’anniversario dell’omicidio Matteotti (che precede di 14 anni le leggi razziali), balbettare quando si festeggia la Liberazione, nascondersi quando fascisti in carne e ossa rievocano lo squadrismo bastonando, dieci contro uno, ragazzini di sinistra.

Tutto questo no, non supera il limite. L’antisemitismo invece sì, perché l’immagine pubblica della destra meloniana verrebbe crepata da scivoloni o fuori onda sul tema. La patente di più fidati amici di Israele ormai ce l’hanno, gliela riconoscono non solo liberali e moderati di ogni risma, ma anche molti, troppi, nelle comunità ebraiche.

Trenta secondi di videoracconto dal vero di un circolo giovanile di Fratelli d’Italia, arredato come il salotto di La Russa, basterebbero da soli a farla ritirare a vita, quella patente. Ma crollerebbe così il racconto della destra come argine alla minaccia antisemita della sinistra, fondamentale per sorreggere tutte altre scelte politiche che con l’antisemitismo non hanno nulla a che fare. Succede in Francia, in queste ore, come in Italia. Le politiche di destra sull’economia, sui migranti e soprattutto sulla guerra a sostegno della barbarie di Netanyahu a Gaza (e non solo, come raccontiamo oggi) trovano il facile appoggio della minaccia antisemita. Riconosciuta e additata sempre dall’altra parte rispetto a quella dove milita e canta la peggio gioventù meloniana. Questa versione dei fatti, questa vera e propria favola giustificazionista, altamente pericolosa proprio perché ispirato da basse convenienze quando l’antisemitismo è un mostro che va combattuto dove c’è, Fratelli d’Italia sa che deve tenersela stretta a tutti i costi. Fa parte ormai della sua ragion d’essere ed è la sponda che le serve per tenersi a galla.

Ed ecco allora di nuovo Donzelli – lo stesso che considera una goliardata travestirsi da soldato nazista – sostenere senza vergogna che l’antisemitismo «sta nei centri sociali» e «non deve contagiare la destra». Obbligate e tardive, arrivano così finalmente e di rincorsa le piene condanne e le mezze dimissioni. Piovono le prese di distanza dei meloniani adulti verso i loro figliocci, goliardici adoratori del duce. Ma chi ci crede, chi dimentica, chi si distrae non può essere assolto

 

 

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