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REFERENDUM. Domani il deposito del quesito abrogativo. Il presidente del Lazio Rocca: «Zaia non ha il nostro debito». L’allarme di Pichetto Fratin

Francesco Rocca (Ansa) Francesco Rocca - Ansa

La prima parte della strategia delle opposizioni contro la legge sull’autonomia differenziata scatta ufficialmente domani, quando sarà depositato in Cassazione il quesito per il referendum abrogativo.

Sarà una presentazione particolarmente affollata dato che i soggetti ricorrenti sono almeno 33. Non solo sindacati (Cgil e Uil) e partiti (Pd, Avs, M5s) ma anche decine di associazioni, a partire da Anpi, Arci e Acli. Non è solo un segnale di unità e di convergenza su un obiettivo urgente ma anche una mera questione economica. Causa tempi ristretti, l’indefesso lavoro dei banchetti che le realtà più organizzate (come la Cgil e il Pd attraverso le feste di partito) possono mettere in campo potrebbe non bastare a raccogliere le 500 mila firme necessarie. Ragion per cui alla scorsa riunione del comitato promotore si era deciso di utilizzare anche una piattaforma privata di raccolta e autenticazione delle firme, dato che quella statale, già prevista da un emendamento a firma Nordio al dl semplificazioni del 2021 e mai attivata, potrebbe non arrivare in tempo. Dopo le pressioni ricevute (e le accuse di tergiversare per aiutare la presidente del Consiglio che si sentirebbe insediata da tutti i referendum in arrivo), Nordio, ora ministro della Giustizia, ha deciso di accelerare, se così si può dire. I tempi tecnici previsti, tra collaudo della piattaforma e decreto, ben che vada renderanno lo strumento disponibile solo da metà agosto. Un rischio che per i promotori del referendum non può essere ignorato. Ecco perché, nonostante i costi, verrà attivata una piattaforma privata. La spesa, intorno al milione di euro, sarà anticipata dalla Cgil. Tuttavia la legge prevede un rimborso per i ricorrenti (50 centesimi circa per ogni firma autenticata) ed ecco anche spiegato il motivo per cui, domani, quando ci sarà il deposito, in Cassazione potrebbe esserci una folta rappresentanza di tutti i soggetti coinvolti.

Anche la seconda parte della strategia anti “spacca Italia”, come è stata definita la proposta di devoluzione leghista, e cioè quella in mano alle regioni di centro sinistra, sta procedendo, quasi spedita. Oggi i governatori di Sardegna, Campania, Emilia-Romagna, Toscana e Puglia dovrebbero riunirsi per stabilire come procedere. Vincenzo De Luca ha già annunciato un consiglio regionale straordinario per lunedì prossimo, mentre ieri le commissioni Statuto e Bilancio dell’assemblea dell’Emilia Romagna hanno dato il via libera alla richiesta di Pd, M5s, Avs e Azione di indire un referendum, dopo un lungo scontro con il centrodestra che ha abbandonato la seduta. Ma se tutto questo era già stato previsto dal governo, non altrettanto prevedibile e quindi gestibile è la reazione di alcune regioni del centro e sud Italia guidate dalla destra.

Dopo le tensioni tra Zaia e Musumeci e oltre all’indecisione del presidente della Calabria, il forzista Occhiuto (al quale una possibile via d’uscita dall’impasse è stata offerta, suo malgrado, dall’appello di centinaia di sindaci calabresi contrari all’autonomia) a stupire la maggioranza è la posizione di Rocca. Il presidente della Regione Lazio, espressione di FdI, ha dichiarato ieri che, al contrario del suo collega veneto, non attiverà l’autonomia, «anche perché Zaia non ha 20 miliardi di debito, se avessi una Regione finanziariamente in salute probabilmente la chiederei anche io». Persino il ministro Pichetto Fratin manifesta perplessità paragonando l’autonomia a un coltello che serve «per tagliare il salame ma anche per accoltellare il vicino». Crepe nel fronte autonomista troppo evidenti perché le opposizioni non le cavalchino. «L’intervento di Rocca suona come un de-profundis», sintetizza Filiberto Zaratti, capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra nella commissione Affari costituzionali della Camera

 

 

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«La democrazia non è della maggioranza e non si riduce al diritto di voto». Il presidente della Repubblica non ci gira attorno. Oggi riparte l’esame del premierato e Mattarella avverte: la legge elettorale non può distorcere la rappresentanza con «marchingegni»

AVVISO AI GOVERNANTI. Il presidente: il dovere di governare non produca restrizioni dei diritti, evitare marchingegni che alterino la volontà degli elettori. Le istituzioni funzionano se se «l’universalità dei diritti non viene menomata da condizioni di squilibrio sociale». Messaggio alla Lega: «La sovranità europea dà sostanza concreta a quella degli Stati membri»

Sergio Mattarella Sergio Mattarella - Ansa

«Non si può ricorrere a semplificazioni di sistema o a restrizioni di diritti “in nome del dovere di governare”. Una democrazia “della maggioranza ” sarebbe una insanabile contraddizione». Sergio Mattarella parla a Trieste alla settimana sociale dei cattolici. E, in un lungo discorso, in cui cita a più riprese Norberto Bobbio, impartisce una dotta lezione di democrazia e Costituzione rivolta a chiunque pensi di ridurre l’esercizio democratico al voto per un capo, e a chi ritenga che l’investitura popolare possa considerarsi come viatico per un potere assoluto.

«LA DEMOCRAZIA COME forma di governo non basta a garantire in misura completa la tutela dei diritti e delle libertà: può essere distorta e violentata nella pretesa di beni superiori o utilità comuni. Il Novecento ce lo ricorda e ammonisce». Di qui l’avvertimento sulla necessità di non confondere la «volontà generale» con quella di una maggioranza che viene abusivamente considerata «come rappresentativa della volontà di tutto il popolo». Questa interpretazione, come è stato in passato, può rivelarsi «più ingiusta e più oppressiva della volontà di un principe», dice Mattarella citando una frase del giurista Emilio Tosato, che contestava un assunto di Rousseau, alla settimana dei cattolici nel 1945.

«Un fermo no», quindi, «all’assolutismo di Stato, a un’autorità senza limite, potenzialmente prevaricatrice». «La coscienza dei limiti è un fattore imprescindibile di leale e irrinunziabile vitalità democratica». Servono «limiti alle decisioni della maggioranza che non possano violare i diritti delle minoranze».

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Contro il «baco» del premierato, Casellati lancia il Mattarellum

IL CAPO DELLO STATO non cita le riforme costituzionali all’esame del Parlamento, come l’elezione diretta del premier fortemente voluta da Meloni o le ipotesi di riforma elettorale in senso ancora più maggioritario evocate ieri dalla ministra Casellati. E tuttavia avverte sui rischi presenti

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Era il solo leader europeo a non essere andato in Ucraina. Zelensky: «Pace sì ma giusta, si unisca agli sforzi Ue». L’Ungheria chiede il cessate il fuoco (mentre il ministro degli esteri era in linea con Lavrov)

«Tregua»: Orbán va finalmente a Kiev

Il primo ministro ungherese Viktor Orbán si è recato per la prima volta in Ucraina dall’inizio della guerra. La visita coincide con l’inizio del semestre di presidenza di turno dell’Ue per l’Ungheria e giunge al culmine di un periodo di grandi tensioni tra Budapest e Kiev. I vertici ungheresi, infatti, si sono ripetutamente opposti all’adesione dell’Ucraina alla Nato e all’Ue, alle sanzioni contro la Russia e alle forniture militari all’esercito ucraino. Orbán, inoltre, non ha mai nascosto la propria posizione sul conflitto in est Europa che è del tutto opposta a quella ucraina in quanto chiede che il Paese invaso tratti con Mosca a partire dalla situazione sul campo e ceda «qualcosa» (ovvero i territori già occupati) a Putin.

TUTTAVIA, secondo anonime fonti politiche ungheresi sentite dal Guardian alla vigilia della visita, l’incontro tra i due leader è stato possibile grazie a un accordo di massima sui diritti della minoranza etnica ungherese che vive in Ucraina. «La condizione per l’incontro era che la questione dei diritti di cittadinanza fosse risolta» ha dichiarato la fonte, che ha aggiunto, «nelle ultime settimane è stato raggiunto un accordo». Negli ultimi anni, già prima dell’invasione russa, Budapest ha ripetutamente accusato Kiev di discriminare la minoranza etnica magiara concentrata nell’Ucraina sud-occidentale che per la retorica nazionalista di Fidesz (il partito del premier) è parte di quel progetto propagandistico di protezione delle minoranze ungheresi in Polonia, in Romania e, appunto in terra ucraina. Orbán si è spinto fino a riconoscere il passaporto ai discendenti ungheresi oltrefrontiera e, guarda caso, in quelle aree i collegi elettorali hanno sempre fatto registrare percentuali di preferenze per Fidesz altissime. Nelle fantasticherie imperialiste dei nostalgici della «Grande Ungheria», inoltre, la sconfitta dell’Ucraina coincide spesso con un’annessione dei territori di confine sui quali vivono queste minoranze magiarofone.

DAL CANTO SUO Kiev ha sempre negato, ma ora che Zelensky ha bisogno del massimo supporto possibile da parte degli alleati occidentali e, soprattutto, del cappello della Ue con la quale il suo Paese ha iniziato i negoziati per l’adesione, il supporto di Orbán è diventato molto importante.

NON FONDAMENTALE, perché come abbiamo visto negli ultimi mesi alla fine sia i membri della Nato sia quelli dell’Ue sono sempre riusciti ad approvare le misure di supporto a Kiev anche senza il voto favorevole dell’Ungheria. La quale in più occasione ha lasciato intendere di volere qualcosa in cambio per la fine dell’ostruzionismo. Non si tratta solo di una questione geopolitica, dunque, ovvero della vicinanza di Budapest al Cremlino, dal quale dipende in parte per le forniture energetiche. Ma di ottenere qualcosa dai 27 senza rinunciare alle misure che l’Ue gli contesta ormai da anni – e per le quali ha bloccato i fondi – come le leggi omofobe, la censura dei media, il sistema giudiziario poco trasparente e le politiche migratorie.

«Il contenuto dei nostri colloqui di oggi» ha dichiarato Zelensky dopo l’incontro a porte chiuse, «può diventare la base per un futuro accordo bilaterale tra i nostri stati, che regolerà le nostre relazioni». Orbán ha esortato il leader ucraino a prendere in considerazione un cessate il fuoco preventivo per «accelerare i colloqui di pace». Per la prima volta il premier ungherese ha lodato le iniziative di pace di Kiev, forse più per convenienza diplomatica che per reale convinzione, ma ha ribadito che richiedono «troppo tempo». Ciononostante ha auspicato la firma di accordi di collaborazione bilaterale tra i due stati. Zelensky ha insistito che qualsiasi pace deve essere «giusta», che l’Europa «non deve tirarsi indietro» e che Orbán deve unirsi «agli sforzi compiuti» per la pace auspicata da Kiev.

SINGOLARE che in questa giornata di distensione magiaro-ucraina il ministro degli Esteri di Budapest, Peter Szijjarto, abbia avuto un colloquio telefonico con il suo omologo russo Lavrov. «Durante la discussione sulla crisi ucraina, entrambi i ministri hanno sottolineato la necessità che Kiev assicuri incondizionatamente i diritti delle minoranze nazionali che vivono nel Paese» ha capziosamente sottolineato il capo della diplomazia del Cremlino

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UE. Bas Eickhout: «Na a giochi pericolosi con Ecr». Dalla convention in Portogallo i Popolari chiedono una transizione a misura di lobby industriali

 Ursula von del Leyen - Ap

Parola d’ordine: tirate per la giacchetta Von der Leyen. A quindici giorni dal voto decisivo che nell’Aula di Strasburgo dovrà definire i contorni della maggioranza che sosterrà il prossimo ciclo politico, l’esponente della Cdu tedesca si trova stretta tra richieste politiche di segno opposto. Ieri è stata la giornata dei Verdi, per nulla rassegnati a lasciar scivolare verso destra l’esecutivo europeo, e anzi pronti a rilanciare sul Green Deal.

A sostenere l’allargamento della maggioranza al gruppo ecologista è stato ieri Bas Eickhout, europarlamentare olandese e co-presidente dei Greens. Von der Leyen «sta facendo un gioco pericoloso» sostiene Eickhout. «Iniziando a ‘fare shopping’ nell’Ecr può guadagnare 25 voti», ovvero quelli di FdI, «ma rischia di perderne 20 nell’S&D», dice riferendosi all’eventuale imbarazzo dei deputati Pd a votare insieme ai meloniani. La campagna acquisti, ragiona ancora il leader dei Greens, può generare esiti imprevedibili, mentre se von der Leyen «costruisce una coalizione ampia con i gruppi politici, ha buone chance di essere eletta». Oltretutto va ricordato che l’elezione della Commissione non si chiude nel giorno del voto di fiducia a Strasburgo, Quindi, argomenta Eickhout, dato che «la maggioranza deve essere stabile non solo il 18 luglio, ma anche dopo», l’unica garanzia di stabilità è quello di un patto costitutivo, e magari anche di legislatura, con gli ecologisti.

In questi giorni decisivi prima del passaggio parlamentare, la presidente della Commissione incaricata dal vertice dei leader europei a fine giugno prosegue il dialogo con i gruppi politici. L’appuntamento con i Verdi è arrivato lunedì pomeriggio, dopo quello con Ppe e socialisti. «Incontro costruttivo» lo definisce la co-leader dei Verdi, la tedesca Terry Reintke, dal social X. I Verdi fanno sapere che sono stati discussi vari temi: intanto quello per loro più importante, ovvero la transizione ecologia. E poi competitività, stato di diritto e diritti umani. Così il dialogo è avviato e potrebbero esserci altri appuntamenti in agenda. «Se dobbiamo lavorare insieme e costruire una maggioranza stabile e democratica nel Parlamento europeo, noi siamo pronti», ribadisce Reintke.

Il tentativo di seduzione dei Verdi verso la leader tedesca non è nuovo. Una volontà non indebolita dalla disfatta numerica il 9 giugno – circa 20 seggi persi a Strasburgo a causa dei cattivi risultati principalmente in Germania e Francia, anche se con l’Italia in controtendenza – che farebbe di sicuro piacere alla componente di sinistra dell’alleanza, quella dei socialisti. Peraltro, il più grande paese con un governo in carica di sinistra dopo la Germania, ovvero la Spagna, indicherà quasi certamente l’attuale ministra della transizione ecologica Teresa Ribeira per il ruolo di commissario a Bruxelles. L’idea è quella di portare avanti il Green deal, o sarebbe meglio dire quel che ne resta. Un progetto che era stato disegnato nel primo esecutivo von der Leyen dal suo vice, il socialista olandese Frans Timmermans.

Che la presidente della Commissione sia «a favore del Green deal», lo assicura di nuovo Eickhout uscendo ieri dalla riunione all’Eurocamera, a cui ha partecipato la stessa presidente della Commissione. Von der Leyen ha sottolineato che è una priorità, anche se il suo partito non è mai stato chiaro su questo. Il partito, appunto. In contemporanea il Ppe, dal suo congresso in Portogallo, cannoneggia le politiche ambientali dell’Ue. La bozza del documento finale, che contiene le proposte di lavoro per la Commissione, contiene tra l’altro la richiesta di stop all’attuazione della direttiva sulla responsabilità delle multinazionali (anche conosciuta con l’acronimo Csddd), il rinvio del regolamento sulla deforestazione e della fine dei motori termici a partire dal 2035. Insomma, una transizione ecologica riveduta e corretto alla luce dei desiderata delle lobby agricole, industriali e del settore automobilistico, a cui i Popolari sono da sempre attenti

 

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In Francia la paura della destra fa 218 come i candidati che rinunciano al 2° turno per fare barriera contro Le Pen. Il maggior sacrificio lo fa la sinistra, ma malgrado le ambiguità di Macron anche molti dei suoi si ritirano: nelle sfide a due a Rn può sfuggire la maggioranza assoluta

IL TRIANGOLO NO. La paura rianima il «fronte repubblicano». Soprattutto i candidati della sinistra rinunciano al secondo turno, ma anche tanti centristi

 Sostenitori del Nouveau Front Populaire incollano manifesti per le strade di Parigi - foto Ap

L’equazione si annunciava complicata, ma sembra essere stata in gran parte risolta. Il primo turno delle elezioni legislative francesi ha sancito un numero di ballottaggi «triangolari» senza precedenti nella storia della 5a Repubblica: ben 306 seggi da assegnare dopo un secondo turno a tre candidati che, alla fine, si sono ridotti a poco più di un centinaio, in seguito alle «desistenze» per sfavorire l’elezione di deputati d’estrema destra.

SECONDO UN CONTEGGIO di Le Monde, il Rassemblement National di Marine Le Pen sarà presente in almeno 243 ballottaggi, quasi sempre in competizione con candidati del Nuovo Fronte Popolare (Nfp) o della coalizione macronista, Ensemble, e talvolta con candidati dei Républicains, il partito della destra gollista. Con una maggioranza assoluta fissata a 289 deputati, quindi, ogni ballottaggio diventa cruciale per impedire a Jordan Bardella d’insediarsi a Matignon, la residenza del primo ministro.

Domenica sera, dopo la pubblicazione dei risultati, Jean-Luc Mélenchon ha annunciato che i candidati del Nfp si sarebbero ritirati qualora arrivati terzi e quando in questo caso un candidato Rn fosse primo o suscettibile di essere eletto. Un modo per non disperdere i voti e sbarrare la strada ai candidati lepenisti.

Dal canto loro, Emmanuel Macron e i suoi hanno invece emesso segnali contrastanti. Tra domenica e lunedì, è sembrata imporsi una linea del «né-né» all’insegna degli «opposti

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Lunedì Rosso del 1 luglio 2024

Nella foto: Proteste nella notte a Parigi contro la vittoria della destra nelle elezioni. @Lapresse Oggi un Lunedì Rosso dedicato ai reportage. Dalla Cisgiordania il racconto dell’altra faccia dell’espulsione: attaccando e distruggendo le comunità palestinesi, i coloni hanno svuotato 18 villaggi e allargato gli insediamenti. Da Parigi, un viaggio nella città sospesa che si prepara alla Olimpiadi. Dall’Italia alla Polonia, l’orrore di chi è costretto a vivere vicino agli allevamenti intensivi, tra cattivi odori, tossicità nell’aria e inquinamento delle acque. Per iscriverti gratuitamente a tutte le newsletter del manifesto vai sul tuo profilo e gestisci le iscrizioni.

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