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SOVRANISTI ALL'ARREMBAGGIO. Competizione a destra: Fdi incassa un duro colpo dagli storici alleati e Salvini esulta

Eurocamera, addio Meloni. Vox trasloca nei Patrioti Il leader di Vox Abascal al meeting dei conservatori europei tenutosi in Ungheria - foto Ap

Va a gonfie vele la compagna acquisti del premier ungherese Viktor Orbán tra i partiti populisti e nazionalisti. Gli spagnoli di Vox, guidati da Sanitago Abascal, si uniscono ai Patrioti per l’Europa, il nuovo gruppo lanciato dal premier magiaro, mentre in serata arriva l’adesione ai Patrioti anche del Pvv di Geert Wilders, uscito vincitore dalle recenti elezioni in Olanda. I sei eurodeputati di Vox lasciano il raggruppamento dei Conservatori (Ecr) che, appena costituito come terzo più numeroso all’Eurocamera, rimane sul podio anche se per pochi seggi rispetto ai liberali di Renew: 78 a 76. Ora tutti attendono lunedì prossimo quando, dopo il voto francese di domani, prenderà ufficialmente vita il gruppo che lo stesso Orbán sta plasmando da giorni e di cui le nuove acquisizioni rappresentano un tassello importante: quei Patrioti che si prefiggono di scavalcare Ecr come terzo più grande raggruppamento all’Eurocamera dopo Ppe e socialisti.

Antonio Tajani

Nuovo gruppo ininfluente, nessuno vuole discutere con loro

Matteo Salvini

Io aspetterei metà luglio per verificare chi è irrilevante e chi è rilevante
LA COMPETIZIONE A DESTRA è aperta, mentre nei rapporti tra il leader spagnolo e la leader FdI domina verso l’imbarazzo. «Giorgia Meloni sarà sempre amica e alleata di Vox», sembra scusarsi il partito spagnolo, che in una nota definisce il passaggio alla piattaforma capeggiata dal premier ungherese come «un’opportunità storica per adempiere al mandato degli elettori, in un grande gruppo che si erga come alternativa alla coalizione di popolari, socialisti ed estrema sinistra». Ciò non toglie, chiarisce Abascal, la determinazione a «mantenere un rapporto speciale» con formazioni quali FdI o Pis, gli ex compagni di gruppo. Però l’impegno di Vox, ha aggiunto Abascal, è sempre stato quello di «mettere insieme il maggior numero di forze patriottiche e sovraniste possibile», e ciò avverrà «anche nella nuova legislatura». Insomma: le strade si dividono.

A ECR – che nella prospettiva di Vox rimane quindi dall’altra parte della barricata, quella che non ha chiuso le porte all’Ursula bis – non resta che incassare. «Saluto i colleghi di Vox con cui abbiamo condiviso 5 anni di appassionate battaglie politiche», scrive con accenti perfino accorati il capogruppo Ecr Nicola Procaccini su X. L’addio fa male: «Anche se apparterremo a gruppi parlamentari diversi, sono certo che ci ritroveremo spesso fianco a fianco». D’altronde, cortesie e giustificazioni da parte di Vox si spiegano con la strettissima relazione tra Abascal e Meloni. Basti ricordare che tra anni fa la leader FdI partecipò alla convention dell’ultradestra spagnola dal cui palco scandì nella lingua di Cervantes l’ormai proverbiale, famoso tormentone «Sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana».

CHI INVECE SALUTA con entusiasmo l’adesione di Vox al progetto orbaniano è Matteo Salvini. Il leader della Lega parla di «segnale importantissimo» che indica la crescita di un fronte del cambiamento «determinato a dire no a von der Leyen e ai socialisti». Le scintille sugli equilibri politici (europei) tra gli alleati di governo (a Roma) si accendono quando il forzista Antonio Tajani – sicuro sostenitore del von der Leyen bis e della maggioranza Ppe-socialisti-liberali – liquida il nascituro gruppo dei Patrioti come «ininfluente», dato che «nessuno vuole poi discutere con loro, ancora non è neanche ufficialmente formato». Salvini replica affilato: «Io aspetterei metà luglio per verificare chi è irrilevante e chi è rilevante». Non passa giorno che il ministro degli Esteri non dichiari che von der Leyen dovrebbe guardare verso FdI per allargare la maggioranza, voltando le spalle a ogni ipotesi di soccorso da parte dei Verdi. La stessa candidatat al bis la settimana prossima vedrà tutti i gruppi a eccezione di Identità e Democrazia e The Left. Tuttavia, la trattativa con Ecr è a un punto morto e di conseguenza la strategia di coinvolgimento di Meloni nella maggioranza Ursula, di cui Tajani è capofila, rischia di deragliare. La premier italiana in Ue si trova sempre più confinata in un angolo: una marginalizzazione che trova riscontro nella situazione dei gruppi parlamentari.

FONTI dell’Europarlamento fanno tra l’altro notare che, al di là dei numeri assoluti, Ecr presenta delegazioni da due soli grandi paesi Ue, ovvero Italia con FdI e Polonia con il Pis, che faticosamente sono rimasti nei Conservatori dopo un lungo tira e molla. Il progetto dei Patrioti, invece, riceve sempre più adesioni da paesi diversi, anche grandi. Gli italiani della Lega e gli spagnoli appena arrivati e poi plausibilmente i francesi del Rassemblement National, si aggiungono ai fondatori ungheresi di Fidesz, agli austriaci dell’Fpoe e i cechi di Ano. Se poi lunedì prossimo si unissero anche i lepenisti, con i suoi 30 eurodeputati – la delegazione più grande nell’Eurocamera insieme alla Cdu tedesca nel Ppe -, il gruppo arriverebbe poco sotto Ecr. «Poi ci sarebbe anche un argomento diverso: l’uscita di Vox potrebbe rendere più facile la vita dei pro-Ursula bis, sia in Ecr che fuori», ragionano ancora da Bruxelles. O forse, può farla sentire ancora più sola

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La disfatta Tory consegna il governo del Regno unito ai laburisti. I 412 seggi vinti da Starmer, il più grande “swing” del partito, non corrispondono però a una valanga di voti, complice l’astensione. L’ombra nera di Farage: entra a Westminster con quattro deputati

HO FATTO CENTRO. La squadra di Downing Street. Lodi a Rishi Sunak, primo leader di origine asiatica, discorso sul ritorno del governo al servizio dei cittadini

Ha fatto centro

La cronaca della vittoria annunciata del Labour di nuovo al potere è proseguita ieri mattina senza soluzione di continuità per Starmer e i suoi dopo una notte febbrile trascorsa davanti alla ridda di cifre, percentuali, elaborazioni grafiche digitali costruite sullo spoglio. Recatosi subito a Buckingham Palace dal monarca dove, in una cerimonia medievale che prevedeva il baciamano (opportunamente emendata del medesimo), ha ricevuto l’incarico di formare il suo – del monarca – governo, Starmer è pervenuto poi a Downing Street.

DAVANTI allo stesso leggìo dove lo sbaragliato premier uscente Rishi Sunak aveva annunciato la data delle elezioni «anticipate» sei settimane prima, e dopo che questi vi aveva tenuto quello di commiato (l’unica differenza è che ieri era asciutto), Starmer ha parlato (letto) per la prima volta al paese. Ha tributato rispettose lodi al Sunak primo Primo ministro britannico di origine asiatica – un segnale di magnanimità – ha parlato del ritorno di un governo al servizio dei cittadini, di un governo del fare, che tratterà tutti con rispetto, anche coloro che non l’hanno votato, di un governo che farà anziché parlare, di un governo che al primo posto metterà il paese e non il partito. Ha parlato, anche se in chiave naturalmente positiva, di un grande reset: lo speech writer non si è avveduto/non ha tenuto conto, dell’omonima teoria della cospirazione. E ha poi infilato una serie di elogi della stabilità, della moderazione, del rinnovamento.

SI È POI INSTALLATO al numero dieci, dove ha iniziato a convocare i componenti del Suo (sempre del monarca) governo:

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With more than half of the 650 seats declared, Keir Starmer will be the new prime minister as the Labour party secures a majority. Follow the final results and find out how your constituency voted.
Labour
410
+213
illustration of Keir Starmer
illustration of Rishi Sunak
Conservative
119
-249
 
 
Lib Dem
71
+63
SNP
8
-37
SF
7
0
Others
6
+3
DUP
5
-3
Reform
4
+4
Green
4
+3
PC
4
+2
SDLP
2
0
Alliance
1
0
UUP
1
+1

642/650 seats declared

Results explained

+/- figures based on 2019 results modelled to new constituency boundaries. If a seat’s boundaries did not change, +/- figures based on defending party at dissolution

*326 seats needed for an overall majority. A working majority requires a lower number as certain MPs do not usually vote

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ELEZIONI. L’annunciato successo laburista nel Regno Unito fa i conti con i numeri e l’ultima carta dei tories: la paura della «supermaggioranza»

Il candidato laburista Keir Starmer al seggio elettorale insieme alla moglie Victoria foto Ansa Il candidato laburista Keir Starmer al seggio elettorale insieme alla moglie Victoria - foto Ansa

Secondo il grigio acume di Benjamin Franklin, nella vita esistono solo due cose certe: la morte e le tasse. Nel Regno Unito, stamattina, ce ne dovrebbe essere a tutti gli effetti una terza: la vittoria elettorale laburista. Una vittoria tale da potenzialmente ridurre all’irrilevanza i conservatori, il partito più antico del mondo, dominatore assoluto della politica britannica da trecento anni in qua (i laburisti hanno governato meno di un terzo dell’ultimo secolo) e faro delle classi dominanti globali. Insomma, la vera razza padrona.

Tenendo sempre a mente il pessimismo dell’intelligenza, ecco gli scenari possibili. Risentono tutti del tellurico effetto Johnson/Truss, i penultimi due leader conservatori a cui si devono rispettivamente l’apoteosi Brexit, i festini a Downing Street di «Boris» mentre il paese era piantonato per il Covid e il mini-budget che ha semidistrutto il capitalismo britannico di Truss, determinandone il premierato più breve di sempre. Nel 2019, come si ricorderà, Boris Johnson aveva procurato ai conservatori una vittoria allora poderosa (maggioranza di 80), approfittando anche del fatale tentennamento del Labour di Corbyn rispetto alla permanenza o meno nell’Ue.

A SEI SETTIMANE dall’annuncio da parte di Rishi Sunak della data di ieri per la votazione, la situazione è tale da aver introdotto un neologismo nel lessico psefologico (psefologia, l’analisi statistica delle elezioni) e cioè «supermaggioranza». Si invererebbe se il partito di Starmer ottenesse 250 seggi (su 650) Probabilmente i miliardari nazionali che non l’hanno già fatto espatrierebbero: Starmer potrebbe cambiare i connotati di un paese che è la culla ma anche la tomba della democrazia (il deficit democratico dell’uninominale secco lo celebrano solo quelli che non lo devono subire; in questo caso avrebbe almeno il merito di tenere il Reform Uk di Nigel Farage a bada con meno di venti seggi). Ebbene, gli allibratori consideravano fino a ieri questo come lo scenario più probabile. Ragion per cui Sunak – che potrebbe addirittura perdere il suo seggio, un’altra prima assoluta – si è rassegnato a usare il termine «supermaggioranza» come monito negli ultimi giorni della campagna, ammettendo così l’imminente disfatta: o votate per me o avrete i Soviet a Westminster. Se salvasse la poltrona, Sunak ha detto che rimarrebbe al timone del partito fin quando necessario, ma c’è da scommettere (!) che se ne tornerebbe a Santa Monica, in California, dove ha una magione da sette milioni di euro vicino a Muscle Beach, noto caffè letterario.

Segue lo scenario cosiddetto blairiota, quello che portò Tony Blair a stravincere nel 1997: una maggioranza di almeno 150 seggi (allora furono 179) che avrebbe inflitto tredici anni di New

Labour con annessi ratifica della deregulation thatcheriana della finanza, invasione illegale dell’Iraq con le catastrofiche conseguenze che stiamo pagando tutt’ora, e privatizzazioni galoppanti. Questo scenario ammette la sopravvivenza dei Tories, la cui vagheggiata estinzione sarebbe commutata in un non meno desiderabile oblio ultradecennale.

TERZA IPOTESI, quella che in tempi “normali” sarebbe stata una maggioranza laburista comunque apprezzabilissima (oltre 50 seggi), ma che dopo tutto questo fragore bandistico dei sondaggi risulterebbe come un mezzo disastro, dando alla “sinistra” del partito la chance di mettere all’angolo il tremebondo Starmer per aver inflazionato il sostantivo Change svuotandolo per sempre di significato. E diciamo pure che “i mercati” non apprezzerebbero proprio: la timidezza nella spesa pubblica contenuta dal programma elettorale verrebbe presa giustamente di mira obbligandolo a recedere dai fioretti di disciplina fiscale con i quali si è faticosamente fatto accettare dai più abbienti.

L’ultima supposizione è quella di un parlamento hung, (appeso, non impiccato). Estremamente improbabile, e dunque lucrosissima per chi ama scommettere, sarebbe lo scenario in cui «Sir Keir» si ritrovasse senza maggioranza assoluta e dovesse allearsi con qualcuno: i liberaldemocratici in questo caso, che si ritroverebbero come nel 2010 a fare il kingmaker, a decidere, e a entrare in una coalizione, stavolta lib-lab, ma non senza chiedere qualcosa in cambio, nella fattispecie una possibile retromarcia su Brexit o una riforma del sistema elettorale che li condanna da sempre all’irrilevanza.

Potrebbero addirittura diventare l’opposizione, anche qui tornando indietro di secoli, ma soprattutto mandando gli psefologi a cercarsi un altro mestiere, magari meno triste

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«Sde Teiman non è un carcere, è la nostra vendetta». Parla un medico israeliano entrato nella Abu Ghraib di Netanyahu la base-prigione del Neghev in cui vengono rinchiusi senza un’imputazione i palestinesi presi a Gaza. Abusati e torturati, bendati, feriti senza cure e legati al letto

ISRAELE-PALESTINA. Parla un medico israeliano entrato nella base-prigione di Israele nel Neghev, in cui i palestinesi sono ammanettati al letto per mesi

 Detenuti palestinesi dopo essere stati rilasciati dall'esercito israeliano, a Deir Al Balah - foto Getty Images

Torture, abusi e violenze di ogni genere a danno di centinaia di detenuti palestinesi di Gaza arrestati dopo il 7 ottobre, anche quelli gravemente feriti e ammalati. Di quanto accade nel centro di detenzione di Sde Teiman, la Abu Ghraib di Israele, nei pressi di Bersheeva nel Neghev, si parla da mesi. Solo qualche settimana fa, grazie alla denuncia dei media internazionali e alla petizione presentata alla Corte suprema dall’Associazione israeliana per i diritti umani, le autorità hanno deciso di trasferire gran parte dei palestinesi tenuti prigionieri a Sde Teiman. Ne rimangono altri duecento e le loro condizioni non sono migliorate. Abbiamo raccolto la testimonianza del dottor F.K. che ha visitato Sde Teiman. Ci ha chiesto di non rivelare la sua identità.

Quante volte sei stato a Sde Teiman?
Solo una. Sono un chirurgo e mi hanno chiamato a proposito di un detenuto palestinese in gravi condizioni che pochi giorni prima era stato ricoverato nell’ospedale pubblico in cui lavoro. Stava molto male e volevano un parere. Quella persona avrebbe dovuto rimanere ricoverato nella struttura ospedaliera e non essere rimandato subito a Sde Teiman. So di prigionieri (palestinesi) che dopo essere stati operati negli ospedali non sono stati tenuti in terapia intensiva o in osservazione, ma portati subito nei centri di detenzione e nelle prigioni in condizioni instabili.

Cos’è Sde Teiman?
Fondamentalmente è un’enorme base militare con un’area di detenzione divisa in due parti. Una è una sorta di ospedale da campo, dove sono stato io. Nell’altra ci sono le tende con i prigionieri di Gaza. Tutto appare molto precario. All’ingresso sono ammassati i materiali sanitari. Gli ammalati si trovano sotto una tensostruttura, uno scheletro di metallo coperto da un tendone. Quindi sono esposti alle condizioni esterne, con temperature che

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EOLICO E FOTOVOLTAICO. Il ministro Fratin dà libertà alle regioni nell'individuare le aree idonee, Lollobrigida mette paletti. Legambiente: «Poco fondato l’11% di energia elettrica da nucleare al 2050»

Rinnovabili 

La strada della transizione energetica è lastricata di buone intenzioni, ma non sempre le iniziative del governo italiano le rispettano: ieri, ad esempio, è stato pubblicato sulla Gazzeta Ufficiale il decreto che disciplina l’individuazione di superfici e aree idonee per l’installazione di impianti a fonti rinnovabili, in particolare eolico e fotovoltaico, che secondo alcuni crea soltanto confusione. Emanato il 14 giugno scorso dal ministero dell’Ambiente, il provvedimento prevede infatti che siano le regioni a redigere la mappa delle aree idonee sul loro territorio entro un termine perentorio di «180 giorni dalla data di pubblicazione in Gazzetta».

La vita del provvedimento, però, s’intreccia con quella del dl Agricoltura voluto dal ministro Lollobrigida, che «vieta in maniera indiscriminata in alcune zone senza senso il fotovoltaico a terra» commenta Legambiente, mentre questo decreto ministeriale «dà libertà assoluta alle regioni su dove definire le aree idonee per gli impianti a fonti rinnovabili»: c’è confusione, insomma, anche perché tutto questo accompagna un nuovo Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec) che presenta uno scenario definito da Legambiente «abbastanza inconsistente e poco fondato dell’11% di energia elettrica da nucleare al 2050, che può arrivare fino al 22%», un insieme che secondo il presidente Ciafani comporta «distrazioni e ostacoli che non renderanno la vita semplice alla filiera delle rinnovabili, che continua a lavorare nonostante tutto» (con il 75% degli italiani contrario al nucleare).

Nel 2021 abbiamo installato 1,5 gigawatt di nuovi impianti, nel 2022 sono diventati 3, nel 2023 sono diventati 6 ma, come evidenzia anche la tabella allegata al decreto, il tasso di crescita dovrà essere superiore, fino a 12 gigawatt in media all’anno, per un totale di 80 gigawatt al 2030. Nella tabella allegata al decreto aree idonee figura inoltre un obiettivo importante anche per la regione Sardegna, che però ieri ha legiferato una moratoria che blocca ogni nuovo impianto per un massimo di 18 mesi: l’isola dovrebbe raggiungere una capacità installata pari a 6.264 megawatt entro il 2030. L’obiettivo per l’isola è il più consistente d’Italia dopo quelli attribuiti a Sicilia, Lombardia, Emilia-Romagna e Puglia. Il decreto prevede anche l’aiutino: «Ai fini del raggiungimento dei rispettivi obiettivi, le regioni e le province autonome possono concludere fra loro accordi per il “trasferimento statistico” di determinate quantità di potenza da fonti rinnovabili». In pratica, l’impianto magari è a Malles ma, se la Provincia autonoma di Bolzano fa un accordo con la regione Basilicata, può figurare a Metaponto.

Resta da capire, nella definizione delle aree idonee, in che modo le regioni terranno conto di quanto descritto puntualmente nel decreto. Ovvero dell’importanza di tutelare il patrimonio culturale e il paesaggio, le aree agricole e forestali, la qualità dell’aria e dei corpi idrici, e in che modo riusciranno a privilegiare «l’utilizzo di superfici di strutture edificate, quali capannoni industriali e parcheggi, nonché di aree a destinazione industriale, artigianale, per servizi e logistica». Il tutto, poi, tenendo conto anche delle problematicità collegate alle infrastrutture di rete e alla dislocazione della domanda elettrica, tutte questioni che affronta ad esempio chi nelle aree interne sta avviando comunità energetiche rinnovabili.

Tra le voci critiche il Forum Acqua Abruzzo: «In Abruzzo entro il 2030 dovrà essere installata una capacità aggiuntiva di almeno 2.092 megawatt di rinnovabili rispetto al valore del 2020. Per dare un ordine di grandezza, corrisponderebbero a circa 300 torri eoliche di ultima generazione alte 270 metri». Il problema non sono i nuovi impianti, che vanno fatti, ma «bisogna governare il processo e pianificare attentamente l’uso del territorio anche per evitare il “rigetto” da parte delle comunità interessate» spiega Augusto De Sanctis del Forum. Parla di partecipazione, a cui l’Italia e la maggioranza sono allergici

 

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