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Divisi sulla prossima presidenza degli Usa, divisi in Europa. Tra gli alleati Meloni e Salvini è scontro a tutto campo. Ieri nuova offensiva leghista sulle armi a Kiev. E un attacco al cuore della propaganda di governo: la Rai

CRISI DI IDENTITARI. La premier difende l’invio di armi: «La linea italiana chiarissima in tutto il mondo». Nuovi attacchi leghisti: «Alimentano morti»

Matteo Salvini e Giorgia Meloni foto Ansa Matteo Salvini e Giorgia Meloni - foto Ansa

L’offensiva a tutto campo lanciata dalla Lega negli ultimi giorni contro la premier Giorgia Meloni può sembrare il solito balletto a uso di giornali a telecamere, rumoroso ma privo di sostanza. Inoffensivo. Non è così, o non del tutto. La destra di Viktor Orbán, Marine Le Pen e dello stesso Matteo Salvini non è putiniana, o lo è solo di risulta. È trumpista e si aspetta sfracelli dal ritorno del tycoon alla Casa Bianca. Non a torto: il terremoto a Washington avrebbe effetti deflagranti in Europa e ricadrebbe anche sugli equilibri di una destra italiana in cui la premier è benvoluta da Biden, si appoggia a Biden e da Biden si aspetta la nomina di un italiano come «inviato speciale Nato per il Fronte sud». I sovranisti doc si stanno posizionando in vista di quel momento. Per questo sono nati i Patrioti.

Per questo la Lega ha scatenato un attacco che, a differenza di quelli precedenti, non mira solo a strappare qualche minuto di visibilità in più. Meloni lo sa perfettamente. Certo non può schierarsi sulle elezioni americane ma quando assicura di «aver visto bene Biden che mi ha fatto un’ottima impressione come presidente» dove batta il suo cuore lo si capisce comunque.

LE DUE DESTRE EUROPEE se sanno che un certo livello di scontro sarà inevitabile, sono anche consapevoli di dover convergere spesso. Dopo le blandizie dei Patrioti ieri è stato il turno di Giorgia Meloni, nella conferenza stampa svolta a Washington quando in Italia erano le ore piccole, ad abbassare la polemica. Nulla impedisce che tra i due gruppi ci siano «ottimi rapporti e forme di collaborazione come già succede in Italia». Sulla missione del premier ungherese Orbán a Mosca e Pechino, l’atlantista di Roma evita attacchi di

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REGIONALI D'AUTUNNO. Il sindaco di Ravenna ottiene il via libera del collega di Bologna: «Siamo una squadra». La destra fredda sulla civica Ugolini. Umbria, il centrosinistra sceglie la sindaca di Assisi Stefania Proietti. Ma lei frena

Il sindaco di Ravenna Michele De Pascale (Pd) Il sindaco di Ravenna Michele De Pascale (Pd) - Ansa

Per il dopo Bonaccini (si voterà tra ottobre e novembre) il Pd ha scelto il sindaco di Ravenna Michele De Pascale, classe 1985, in carica dal 2016, che ha avuto la meglio sull’altro papabile, Vincenzo Colla, assessore regionale allo sviluppo e al lavoro della giunta uscente, ex Cgil, molto apprezzato dai sindacati e anche dagli imprenditori. È stato proprio Colla, nato nel 1962, con un gesto molto apprezzato tra i dem emiliani, a indicare il nome di De Pascale mercoledì a un evento di Confartigianato in Romagna. «Ho fatto una legge per attrarre i talenti, e Michele è un ottimo talento».

LA DIREZIONE REGIONALE PD che indicherà ufficialmente De Pascale sarà oggi pomeriggio a Bologna. Ieri mattina il sindaco di Ravenna, con una mossa a sorpresa, è andato a trovare il collega di Bologna Matteo Lepore, uno dei più tiepidi sulla sua candidatura. Un mese fa Lepore aveva posto i suoi paletti: «Il candidato alle regionali deve essere un bolognese. Sono trent’anni che non c’è un presidente di Regione bolognese e questa è anche una questione politica». Lepore, in carica dal 2021 e al primo mandato, molto vicino a Schlein, aveva sempre escluso di volersi candidare. E il derby è sempre stato tra il romagnolo De Pascale e il piacentino Colla, nome che piaceva al sindaco bolognese per il suo consenso trasversale tra sindacati e imprese. E anche perchè, raccontano tra i dem, avendo un profilo tecnico, non avrebbe potuto fare politicamente ombra al bolognese.

E COSÌ IERI DE PASCALE è andato a palazzo d’Accursio, ancor prima di essere indicato ufficialmente candidato. La mossa è scattata dopo aver letto sull’edizione locale del Carlino un titolo che indicava Lepore come «sconfitto» dalla scelta che ha visto convergere Schlein e Bonaccini sul sindaco di Ravenna. I due hanno mostrato una grande intesa, con il bolognese che ha regalato al collega una palla da basket con le firme dei giocatori della Virtus. «Per me l’esperienza di Bologna è fondamentale», ha detto De Pascale. «Per questo ho voluto confrontarmi con lui su alcuni temi importanti per Bologna, avere ben chiare le priorità del capoluogo ancora prima di partire. Un passo importante da fare insieme». De Pascale ha elogiato Colla, «il patto per il lavoro e il clima che lui ha portato avanti in questi anni sarà fondamentale anche per la nuova giunta».

Lepore ha spiegato che Bologna dovrà essere «il collante» dell’Emilia Romagna e ha ricordato il rapporto di collaborazione e amicizia che è nato nei giorni dell’alluvione con i sindaci della Romagna. «Al di là delle alchimie e delle correnti di partito si è creata una squadra, anche dal punto di vista generazionale, un modo diverso di fare politica che farà bene alla Regione». «Con Michele scatterà qualcosa di nuovo», ha detto, lodando la scelta di Colla (che avrà un ruolo chiave nella stesura del programma) «anche dal punto di vista umano». Poi ha messo in fila le sue priorità: sanità, casa, welfare, transizione ecologica. «Serve una visione innovativa della regione che ha bisogno di coraggio, dobbiamo riportare al voto gli astenuti, De Pascale dovrà essere coraggioso come è stata Schlein alle primarie del Pd».

SIA DE PASCALE CHE COLLA al congresso avevano sostenuto Bonaccini. Schlein apprezzava entrambi i profili, forse sognava una candidatura, magari al femminile, che segnasse in modo più chiaro la nuova fase, anche su temi ambientali su cui De Pascale è un po’ della vecchia scuola “sviluppista”, nonostante la giovane età, come ha dimostrato sul rigassificatore di Ravenna. Ma alla fine si è convinta anche grazie al fatto che a Ravenna già da alcuni anni la maggioranza è formata da un campo larghissimo, da Iv ai 5 stelle: un viatico per costruire un’ampia coalizione anche per le regionali. Non a caso De Pascale già assicura «pari dignità» agli alleati. I Verdi però avvertono: «Su infrastrutture e consumo di suolo chiediamo maggiore discontinuità», dice Paolo Silingardi.

Ieri è arrivato anche il via libera dei due grandi ex, Errani e Bersani. «La cosa che mi piace è che qui c’è gente seria. De Pascale e Colla hanno fatto le dichiarazioni assieme, lavoreranno assieme, non c’è problema. Dove si va a trovare gente così? Potranno mandare avanti questa straordinaria storia dell’Emilia-Romagna».

DALL’ALTRA PARTE c’è in campo Elena Ugolini, direttrice dell’istituto scolastico Malpighi, nell’orbita di Comunione e liberazione, già sottosegretaria all’Istruzione nel governo Monti. Ha lanciato un progetto «civico», attaccando il centrosinistra ma poi dicendosi «felicissima se il Pd volesse aderire». Il via libera ufficiale da parte dei partiti di centrodestra non è ancora arrivato. E non è ancora escluso che, alla fine, possa spuntare un nome di Fdi (si parla del senatore Marco Lisei).

PIÙ INDIETRO I LAVORI nel centrosinistra in Umbria dove si voterà in autunno. Nei giorni scorsi i partiti hanno indicato all’unanimità la sindaca di Assisi Stefania Proietti, cattolicissima e ambientalista. Ma lei non ha detto sì. Anche perchè vorrebbe restare al suo posto fino al 2026, per completare il mandato e partecipare da sindaca a tutte le attività per l’ottocentesimo anniversario della morte di San Francesco. Il pressing continua, nel frattempo si scalda a bordo campo la deputata umbra di Avs Elisabetta Piccolotti

 

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Al vertice atlantico a Washington parte l’attacco «per difendere i nostri valori». Biden in crisi alla prova definitiva per le elezioni. Difesa aerea, F-16, sicurezza: l’Ucraina porta a casa tutto, ma non l’ingresso ufficiale nel Patto

 Foto di gruppo al summit Nato di Washington - Ap

Convinzioni comuni. Secondo il presidente Biden è questo che ha tenuto la Nato unita negli ultimi 75 anni e non solo non è il momento di metterle in discussione ma, si legge tra le righe delle sue dichiarazioni, bisogna passare al livello successivo.

La Nato deve farsi mondo e tenere dall’Atlantico al Pacifico l’ordine che gli Usa hanno voluto erigere dopo la seconda guerra mondiale.

L’Ucraina è onnipresente, perché è il terreno di scontro con il nemico attuale russo, ma si deve evocare in ogni occasione il «pericolo cinese», giacché Pechino è il nemico futuro designato ed è stata al centro di molti discorsi sui rischi per il futuro dell’Occidente. «Perché ciò che accade oggi in Ucraina può accadere domani in Asia» ha dichiarato l’attuale segretario della Nato Jens Stoltenberg.

Il segretario della Nato Jens Stoltenberg.

«Ciò che accade oggi in Ucraina può accadere domani in Asia»

L’Europa deve dare di più per scongiurare il temuto «effetto Trump», ovvero la possibile elezione del tycoon che esigerà dai Paesi dell’Ue molti più investimenti per la difesa, ma nel frattempo si annuncia il posizionamento di batterie di missili da crociera Usa in Germania.

E intanto si blandiscono i futuri alleati, il premier

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STRISCIA DI SANGUE. Gaza, il massacro di 29 civili alla scuola Al Awda di Abasan. Israele: abbiamo colpito militante di Hamas con munizioni precise

 10 luglio, sfollati palestinesi tra le macerie della scuola Al Awda di Abasan, distrutta da un raid missilistico israeliano - Abed Rahim Khatib/Ap

Gli sfollati della scuola Al Awda di Abassan due giorni fa pensavano di poter godere di un po’ di normalità e di dimenticare per qualche ora, grazie a una partitella di calcio, distruzioni e morti portate dall’offensiva militare israeliana. Un ennesimo attacco aereo ha trasformato questo raro momento di svago in una tragedia. Un missile ha colpito un accampamento di tende mentre gli sfollati si erano radunati per assistere a una partita organizzata da un gruppo di ragazzi davanti alla scuola. 29 persone, per lo più donne e bambini, sono rimaste uccise nell’attacco. Della strage ad Abasan, ad est di Khan Yunis, si era saputo già martedì ma solo ieri è giunta la conferma da parte del ministero della Sanità che l’attacco è avvenuto durante l’incontro di calcio, mentre la gente osservava i giovani che rincorrevano il pallone, i venditori ambulanti vendevano frullati e biscotti e la cucina popolare dell’accampamento distribuiva pasti a centinaia di persone. «Stavamo guardando la partita, tutto era normale – racconta al manifesto Sami Abu Omar, di Bani Suheila, non lontano da Abassan – il missile è caduto all’improvviso, non abbiamo sentito alcun rumore prima». Poi è stato il panico, accompagnato da grida di dolore e disperazione e dalla fuga in massa dei presenti. Testimoni hanno detto di aver visto corpi smembrati, anche di bambini. Le vittime appartengono in maggioranza alle famiglie Asfour e Abu Daqqa, che si erano rifugiate nella scuola al Awda non lontana dalle loro case distrutte dai bombardamenti.

I comandi israeliani hanno riconosciuto di aver aperto il fuoco ma sostengono che l’attacco ha colpito, con una «bomba di precisione», un combattente di Hamas che aveva preso parte all’attacco nel sud di Israele il 7 ottobre. Fino a ieri sera non hanno commentato la notizia del missile caduto durante la partita di calcio. All’ ospedale Nasser, decine di palestinesi hanno dato l’ultimo saluto ai propri cari morti. «Le scuole erano sovraffollate e le strade erano piene quando all’improvviso un missile ha distrutto tutto. Parti di corpi sono volati in aria, non so come descriverlo», ha detto un’agenzia di stampa Asmaa Qudeih, che ha perso alcuni parenti nell’attacco. L’attacco alla scuola Al Awda è solo l’ultimo di una serie di bombardamenti che hanno preso di mira almeno quattro istituti scolastici delle Nazioni Unite di recente. Israele li spiega come raid contro militanti di Hamas che, sostiene, si nasconderebbero nelle scuole, in particolare quelle dell’Unrwa dove migliaia di sfollati hanno trovato rifugio.

Proprio l’Unrwa resta un obiettivo di Israele che accusa l’agenzia dell’Onu per i profughi palestinesi di collusione con Hamas. Le sue pressioni, a inizio anno, avevano spinto gli Usa e una ventina di paesi occidentali a sospendere i finanziamenti all’Unrwa. Poi tutti hanno fatto marcia indietro, ma non Washington. Martedì notte decine di soldati israeliani delle unità speciali hanno preso parte ad un raid nel quartier generale dell’Unrwa a Gaza City alla caccia, ha detto il portavoce militare, di militanti di Hamas e Jihad che usavano i locali delle Nazioni unite «come base per condurre attacchi contro le truppe israeliane nella Striscia di Gaza centrale». Il portavoce ha detto che l’incursione è avvenuta dopo aver fatto allontanare i civili presenti nella zona. I soldati, ha aggiunto, hanno recuperato armi e munizioni nascoste da Hamas. La violazione della sede dell’Unrwa è stata accolta con scarso interesse dal resto del mondo a conferma dell’insidioso processo di normalizzazione dell’offensiva israeliana a Gaza da parte dei governi e dei media occidentali. «Un altro giorno. Un altro mese. Un’altra scuola colpita…Il palese disprezzo del diritto umanitario può diventare la nuova normalità», ha commentato il commissario generale dell’Unrwa, Philippe Lazzarini.

Le forze israeliane hanno ulteriormente intensificato l’offensiva nel nord e nel centro di Gaza, in particolare nel capoluogo Gaza city. Morti e feriti anche ieri. Il bilancio di vittime dal 7 ottobre è di almeno 38.243 morti e 88.033 feriti. Resta tesa la situazione anche al confine tra Libano e Israele. Il leader di Hezbollah ieri ha ribadito che il cessate il fuoco al confine con il Libano, dipende dalla fine delle ostilità nella Striscia. «Se ci sarà un accordo di cessate il fuoco a Gaza, anche il nostro fronte cesserà (le ostilità) senza alcuna negoziazione», ha detto Hassan Nasrallah. La tregua ieri è tornata sui tavoli dei mediatori. A Doha è giunta la delegazione di Israele guidata dai vertici dei servizi segreti. Non è chiaro se abbia ricevuto dal governo l’incarico di arrivare all’accordo che vogliono, secondo un sondaggio, il 56% degli israeliani ebrei per riportare a casa i 120 ostaggi a Gaza

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LEGGE CALDEROLI. Il referendum sull’autonomia differenziata comincia a far paura alla Lega e più in generale al centrodestra, ancor prima che inizi l’effettiva raccolta delle firme. A tuonare contro la chiamata dell’elettorato […]

Bandiere tricolori sui banchi delle opposizioni contro l'autonomia

 

Il referendum sull’autonomia differenziata comincia a far paura alla Lega e più in generale al centrodestra, ancor prima che inizi l’effettiva raccolta delle firme. A tuonare contro la chiamata dell’elettorato ad esprimersi sul ddl Calderoli, sono stati i tre governatori del Carroccio, Luca Zaia, Attilio Fontana e Massimiliano Fedriga e questo mentre il consiglio regionale dell’Emilia Romagna votava la delibera per chiedere l’abrogazione della contestata legge Calderoli. E mentre il presidente forzista del Piemonte Alberto Cirio, sulle orme di Zaia, firmava la lettera con cui chiede al governo di aprire il tavolo sull’autonomia.

«Se andiamo al referendum – ha detto in modo surreale Zaia in una intervista ieri al Corriere della Sera – l’Italia che ne uscirà non sarà più la stessa. Sarà una guerra tra guelfi e ghibellini, o meglio di italiani contro italiani». Inevitabile la risposta di Maurizio Landini, che con la Cgil sta promuovendo la raccolta delle firme, o della governatrice della Sardegna, Alessandra Todde, che nei prossimi giorni promuoverà nel suo consiglio regionale la richiesta di referendum, o del capogruppo di Avs al Senato Peppe De Cristofaro: è la legge Calderoli a spaccare l’Italia – hanno detto tutti e tre – e non il referendum che la vuole abrogare. Analogamente a Zaia, anche Fedriga ha – come si suol dire – rigirato la frittata: con il referendum «credo che si stia andando verso uno scontro che ha un’estrema strumentalizzazione di un testo che non spacca l’Italia».

Dopo che lunedì scorso il consiglio regionale della Campania ha deliberato di chiedere il referendum, ieri è stata la volta dell’assemblea legislativa dell’Emilia Romagna. Anche a Bologna, come lunedì a Napoli, in favore della delibera ha votato il centrosinistra al completo (28 sì) mentre le destre hanno votato contro (13 i no). Ora si attendono identici atti dai consigli di Toscana, Puglia e Sardegna (quest’ultimo voterà il 17 luglio). Fontana ha espresso «delusione» per l’Emilia, dato che nel 2017 aveva chiesto, come Lombardia e Veneto, l’autonomia. Fontana non dice tuttavia che mentre le due regioni a guida leghista avevano chiesto la devoluzione di tutte le funzioni delle 23 materie indicate dall’articolo 116 della Costituzione, l’Emilia aveva chiesto solo una serie mirata di funzioni più legate alle specificità territoriali della regione.

La segretaria del Pd, Elly Schlein, parlando ieri pomeriggio ad un convegno organizzato dal gruppo dem del Senato su premierato e autonomia, ha esplicitato un ulteriore intento del referendum: «Siccome autonomia e premierato sono frutto di un cinico baratto, se ne fermiamo una le fermiamo tutte». Sottovoce si aggiunge un ulteriore intento: «Prepariamoci a votare per le politiche nel 2026 e non nel 2027» ha sussurrato Arturo Scotto. La raccolta delle firme, oltre alla richieste delle cinque regioni, serve a mobilitare l’opinione pubblica. Infatti il raggiungimento del quorum è un obbiettivo difficilissimo, anche per i 4,7 milioni di italiani residenti all’estero che sui referendum non votano mai. Si tratta di ripetere la mobilitazione che ci fu sui referendum sull’acqua pubblica.

Intanto le altre due riforme costituzionali, il premierato e la separazione delle carriere, camminano al piccolo trotto in commissione Affari costituzionali della Camera. Ieri pomeriggio la commissione ha deciso di esaminare a settimane alterne le due riforme: la prossima inizieranno le 72 audizioni sul premierato, nella successiva (dal 22 luglio) quelle sulla giustizia

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«Non ha vinto nessuno». Con una lettera ai francesi Macron chiama a raccolta il centro e sbarra la strada al Nuovo fronte popolare: solo «l’insieme delle forze repubblicane» ha la maggioranza per formare il governo. Mélenchon: «Non riconosce il risultato del voto»

BISOGNA SAPER VINCERE. In una lettera ai francesi il presidente chiede la formazione di un esecutivo composto «dall’insieme delle forze repubblicane»

«Non ha vinto nessuno». Macron prende tempo e prova a fermare Nfp 

Ci sono voluti tre giorni, ma alla fine Emmanuel Macron si è deciso a dire la sua. «Nessuno ha vinto» le elezioni legislative, ha scritto il presidente della Repubblica in una «lettera ai francesi» pubblicata dalla stampa regionale ieri, 96 ore dopo la vittoria del Nuovo Fronte Popolare, che ha conquistato la maggioranza relativa dei seggi.

Un’evidenza di fronte alla quale l’inquilino dell’Eliseo ribatte che «solo l’insieme delle forze repubblicane» sono in grado di rivendicare una maggioranza assoluta. Per questa ragione, Macron invita «l’insieme» dell’arco repubblicano a «costruire una maggioranza solida». Poi, il presidente deciderà «la nomina del primo ministro, cosa che presuppone di lasciare un po’ di tempo alle forze politiche per costruire dei compromessi». Intanto secondo Politico Macron si preparerebbe ad accettare le dimissioni del primo ministro Gabriel Attal il 17 luglio prossimo. Dure le prime reazioni alla proposta del presidente. E se i socialisti lo invitano a scegliere il nuovo premier nel Nuovo fronte popolare, Jean-Luc Mélenchon usa toni più duri: «Un caso unico nel mondo democratico: il presidente si rifiuta di riconoscere il risultato delle urne, è il ritorno del veto del Re sul suffragio universale», ha scritto su X il leader di Lfi, mentre Marine Le Pen in serata ha parlato di «circo indegno».

LA FORMULA ricorda quanto detto poche ore prima dal ministro degli Interni Gérald Darmanin, intervenuto in mattinata su Europe1, la radio del gruppo di media ultra-conservatori del magnate Vincent Bolloré. Bisogna «prendere un po’ di tempo per evitare il dramma del Fronte Popolare», ha detto Darmanin, dando il tono della strategia della macronie per evitare che

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