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Con 401 voti a favore Ursula von der Leyen è di nuovo presidente della Commissione Ue. Determinanti i voti dei Verdi che ottengono qualche rassicurazione sul Green deal. Ma su guerra e migranti la posizione non cambia. Fdi vota no per «coerenza». Una sconfitta per Meloni che si ritrova una maggioranza spaccata

LA SOTTILE LINEA VERDE. La presidente nel suo discorso cerca di accontentare tutti. Standing ovation sulla critica a Orbán, convitato di pietra

Ursula bis fa 401 Spruzzata green, i Fratelli votano no

Quarantuno e quattrocento uno: i numeri non mentono, neanche nella loro simmetria. Quarantuno sono i voti che hanno permesso a Ursula von der Leyen di essere rieletta per un secondo mandato di cinque anni alla guida della Commissione Ue. Quattrocento uno è il totale degli eurodeputati che si sono espressi a favore dell’Ursula bis, mentre i contrari sono stati 284, gli astenuti 15 e le schede nulle 7. Quattrocento era anche la somma dei deputati della coalizione Ppe-socialisti e liberali che sosteneva la rielezione. «Meglio dell’altra volta», scherza Ursula dopo il voto. Quindi ha avuto tutti i consensi che doveva? Più probabilmente ne ha avuti altri che si sono sostituiti ai franchi tiratori, ovvero almeno una parte dei 50 dei Verdi. Il voto è segreto, quindi dobbiamo stare alle dichiarazioni spontanee dei grandi elettori.

L’ALTRO FATTO È CHE si è finalmente risolto il lunghissimo balletto dei meloniani. Subito dopo la proclamazione, Nicola Procaccini ha dichiarato il no di FdI: «Votare a favore avrebbe significato andare contro i nostri principi». Poi però esclude ripercussioni sul commissario italiano e annuncia: «Vogliamo avere un rapporto estremamente costruttivo» con il nuovo esecutivo europeo.

In mattinata, la presidente della Commissione aveva tenuto un discorso di oltre mezz’ora dall’intento decisamente ecumenico, spaziando dall’economia alla sicurezza, dall’immigrazione all’allargamento dell’Unione fino ai temi sociali. Il lungo applauso finale, con tanto di standing ovation di una parte dell’Aula, è stato preceduto da un altro forse più fragoroso, nel passaggio di critica a Viktor Orbán, convitato di pietra del discorso per la rielezione.

La presidente non lo cita neppure pe

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LA RISOLUZIONE. Sostegno a Kiev, anche i dem divisi. Tajani: «Contrari alle armi contro Mosca, ma FI vota a favore»

All’interno del Parlamento Europeo a Strasburgo foto Ap All’interno del Parlamento Europeo a Strasburgo - foto Ap

Eurodeputati italiani in tilt sull’Ucraina. La colpa è del meccanismo che permette ai gruppi di richiedere il voto per parti separate (in gergo split vote). Il nuovo parlamento ha votato ieri la sua prima risoluzione. Un atto non vincolante, ma dall’alto valore simbolico, dato che vi si ribadisce il «sostegno continuativo» all’Ucraina, approvato con 495 voti a favore, 137 contrari e 47 astensioni.

La maggioranza è ampia, ma con diversi distinguo al suo interno. Il Pd ha trovato indigesto il passaggio in cui si chiede l’eliminazione delle restrizioni all’uso delle armi occidentali fornite a Kiev contro obiettivi militari in territorio russo. Per questo, nel voto splittato, i dem si sono astenuti sulla prima parte della frase, mentre hanno votato contro la possibilità per l’Ucraina di colpire in territorio russo. Su questo c’è stata però l’astensione di Gualmini e Picierno.

«Abbiamo votato sì alla risoluzione nel suo complesso. Però sull’attacco militare in territorio russo non viene specificato lo scopo difensivo né la tipologia di obiettivi», precisa al manifesto l’eurodeputato Pd Dario Nardella. «Oltretutto non si spende una sola parola sull’iniziativa diplomatica europea, né su piano da 50 miliardi per la ricostruzione delle città», continua l’ex sindaco di Firenze. «Sembra più un documento Nato che del Parlamento europeo».

Sul passaggio delle armi oltreconfine votano, in difformità dal gruppo S&D, gli italiani, con anche i 5S in Left, mentre i Verdi si spaccano, con gli italiani contro e tutti gli altri a favore. Nel voto finale, oltre ai Patrioti a destra, risultano contrari al provvedimento i 5S più Lucano e Salis, i Verdi italiani Guarda, Orlando e Scuderi in difformità dal gruppo. Ma anche i Pd Tarquinio e Strada diversamente dal Pd, e la Lega che vota all’opposto degli alleati di governo Fi e FdI, entrambi a favore.

Caso a parte, quantomai in chiave tricolore, quello di FdI che eccepisce sul passaggio di condanna contro il premier ungherese Viktor Orbán. Fi invece si unisce al Ppe sul tema delle armi in territorio russo, quando le dichiarazioni del leader Tajani sembrano andare in direzione opposta. Una cosa è certa: con il voto della Lega nel gruppo dei Patrioti, la compagine di governo conferma le sue divisioni sul sostegno a Kiev

 

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Von der Leyen oggi alla prova dell’Eurocamera dopo una lunga caccia al voto. Barra a destra sui migranti, rassicurazioni ai Verdi. Ppe nervoso sull’ingresso degli ambientalisti in maggioranza, Socialisti e Liberali in guardia sulle aperture a Fdi. Meloni vorrebbe votarla, ma non ha deciso

GIOCO DI RUOLO. La premier punta sulla riconferma ma ancora ieri sera il sì di Fdi era in forse. Socialisti, Liberali e Verdi in allarme su suo sostegno

Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni al G7 foto Ansa Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni al G7 - foto Ansa

Giorgia Meloni si dibatte in un labirinto, ma solo oggi sapremo se riuscirà a uscirne. Ieri per tutto il giorno le linee telefoniche tra Roma e Bruxelles si sono intasate alla ricerca di una soluzione che permetta a FdI di giustificare il voto a favore del ritorno di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea. Ma che sia stata trovata è ancora del tutto incerto. Chiedere ieri sera agli eurodeputati FdI se avessero deciso di votare pro o contro significava farsi ridere garbatamente in faccia: «Vorrei saperlo anche io». Una decisione diventata di giorno in giorno più sofferta verrà presa solo dopo aver letto le «linee guida», nelle quali la candidata riassumerà i contenuti del discorso programmatico che svolgerà poi in aula.

Probabilmente non ci saranno annunci ufficiali nemmeno a quel punto: qualcosa si capirà dagli interventi in aula prima del voto ma l’ufficializzazione arriverà solo nella conferenza stampa già convocata dai capidelegazione Carlo Fidanza e Nicola Procaccini per le 15, due ore dopo l’inizio delle votazioni che a quel punto saranno concluse. Fino a quel momento, come per tutta la giornata di ieri, bocche cucite e consegna del silenzio. Su tutto, anche sugli eventuali contatti tra la premier e la candidata. Il massimo che si strappa è un laconico: «Sono sempre in contatto».

ALMENO IN PARTE si tratta di una situazione tra le più classiche. La premier italiana vorrebbe votare per una presidente con la quale è andata sempre d’accordo invece di farsi sbalzare nel

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NEL 2016 SCRIVE LE MEMORIE DI FAMIGLIA, NEL 2020 NETFLIX NE FA UNA SERIE. COSÌ NASCE UN VICEPRESIDENTE . Subcultura forte, coesione interna, ostilità per i diversi: ecco la tribù bianca degli Appalachi

J.D. Vance, candidato vice di Trump, alla convention repubblicana di Milwaukee 

J.D. Vance, l’ideologo hillbilly che può rendere «sistema» il trumpismo

Non tutti possono vendere l’anima al diavolo, per la semplice ragione che bisogna avere qualcosa che Belzebù abbia voglia di comprare. Nel caso di J. D. Vance, il qualcosa c’era: non il suo servilismo verso Trump, non il suo talento di scrittore, ma una qualità che è molto rara nella politica americana: l’autenticità.

Vance è davvero cresciuto negli Appalachi, salvato da due nonni di scorza dura, bianchi poveri come ce n’erano, e ce ne sono, a milioni.

In Trump tutto è falso: la sua abilità di uomo d’affari, il suo patrimonio, la sua fede religiosa, le sue convinzioni politiche. È talmente bugiardo che giornalisti e oppositori perdono la bussola cercando di smentire le sue frottole. Quindi scegliere come candidato vicepresidente qualcuno che è davvero cresciuto in Ohio, davvero aveva una madre tossicodipendente e davvero è stato capace di descrivere tutto questo in Hillbilly Elegy è sicuramente la prova che il talento satanico di Trump è purtroppo ancora al lavoro.

Questa recensione è uscita nel 2016 su Alfabeta2, la rivista culturale fondata da Nanni Balestrini

Li chiamano Rednecks, oppure White Trash: sono bianchi, poveri e, in larghissima parte, maschi. Hanno, quasi sempre, un arsenale in casa, che torna utile quando i buoni pasto sono finiti e c’è bisogno di procurare un po’ di carne per la cena andando nei boschi vicini. Sono il popolo di Donald Trump, l’improbabile eroe politico della tribù bianca in rivolta.

Il viaggio per capire quanti sono e cosa vogliono può cominciare nel simbolo stesso della controcultura degli anni Sessanta contro cui si sono ribellati: Woodstock. E’ in questa cittadina dello Stato di New York, dove tra il 15 e il 18 agosto 1969 si tenne il più celebre concerto rock di tutti i tempi, che Donald Trump ha ottenuto il 64% dei voti nelle primarie repubblicane di qualche mese fa, ed è in contee come quella dove si trova Woodstock –rurali, spopolate, impoverite- che Trump otterrà i suoi migliori risultati in novembre.

Sono gli Appalachi, la catena montuosa che divide la costa orientale degli Stati Uniti dalle grandi praterie e dall’Ovest: una barriera naturale che culturalmente e politicamente sembra invalicabile oggi quanto lo era per i puritani sbarcati nel 1620. Montagne che ospitano una tribù bianca con una subcultura forte, coesa al suo interno, con rituali propri e una irriducibile ostilità nei confronti dei diversi, tanto più forte se si tratta di politici o di giornalisti.

Sono gli americani discendenti da antenati scozzesi e irlandesi che troviamo nella parte centrale dello stato di New York, in Pennsylvania, in West Virginia, in Virginia, in Kentucky, in Tennessee e ancora più a sud, fino in Georgia, Alabama e Mississippi.

Quest’anno se ne è parlato molto, e nei prossimi mesi se ne palerà ancora di più perché il curioso cocktail di misoginia, promesse impossibili e xenofobia offerto da Trump ha fatto presa su di loro. La loro ribellione ha frantumato il partito repubblicano, costretto ad accettare un outsider come candidato, cosa mai avvenuta in precedenza, e sta scuotendo anche il partito democratico, che ha scelto di nominare un puro prodotto dell’establishment come Hillary Clinton in un anno in cui sono più di moda i forconi che le borse Prada.

JD Vance, senatore e candidato vicepresidente di Trump, alla convention repubblicana di Milwaukee
JD Vance, senatore e candidato vicepresidente di Trump, alla convention repubblicana di Milwaukee, foto Charles Rex Arbogast /Ap

Della tribù bianca in rivolta parla un interessante, a tratti commovente, libro di J. D. Vance intitolato Hillbilly Elegy, una memoria di famiglia. Gli Hillbillies sono stati nel tempo boscaioli, minatori di carbone, operai negli altiforni di Pittsburgh o nelle fabbriche di Akron, muratori, meccanici, camionisti.

Sono stati sottratti alla miseria dal New Deal di Roosevelt e dalla Seconda guerra mondiale e sono stati fedeli per 40 anni al partito democratico. Poi il rifiuto della guerra del Vietnam e il ’68 li hanno catapultati nel campo repubblicano, per i 40 anni successivi e fino ad oggi.

Vance è un giovane avvocato che oggi vive in California ma è nato a Middletown, in Ohio, da un padre ben presto scomparso e da una madre tossicodipendente. E’ cresciuto con i nonni, una coppia di duri teenager scappati da Jackson nel Kentucky per sposarsi e cercare fortuna a Middletown, in Ohio, negli anni Quaranta (Johnny Cash ha dedicato a Jackson una delle sue canzoni più famose, che inizia: “We got married in a fever, hotter than a pepper sprout…”).

Non ebbero vita facile quelli che Vance chiama “Mamaw” and “Papaw” ma negli anni Cinquanta il midwest industrializzato dava lavoro, casa e sicurezza del futuro a tutti. Papaw lavorava all’Armco, uno dei giganti dell’acciao, e per decenni sembrò che il destino di figli e nipoti potesse solo migliorare. Poi le acciaierie cominciarono a chiudere, così come le fabbriche di automobili, come sa chiunque abbia visto Roger and Me di Michael Moore.

La deindustrializzazione portò con sé la desertificazione sociale: i privilegiati, i più abili, i più intelligenti, i più tenaci se ne andarono a Chicago, a Buffalo o a New York mentre la stragrande maggioranza restava attaccata a case che cadevano in rovina, quartieri dominati dalle gang della droga, lavori che duravano poche settimane o pochi mesi.

La religione, il nazionalismo, l’ostinazione non riuscirono a mantenere gli hillbillies in quella classe media che avevano creduto di avere raggiunto per sempre.

Vance è uno di quelli che ce l’ha fatta, il frutto di una famiglia che credeva nell’educazione e nel principale sistema di welfare che di cui Stati Uniti dispongono: l’esercito.

Dopo la scuola superiore Vance scelse per quattro anni i Marines, il che gli permise di andare all’università e poi alla Yale Law School, la fabbrica delle élite. Adesso è un avvocato benestante con moglie, bambini, e casa con piscina, però non ha dimenticato i nonni e la sorte dei 25 milioni di americani bianchi e sfortunati che vivono nelle 420 contee degli Appalachi e si preparano a votare per Donald Trump

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Barchini speronati, motori rubati, gas lacrimogeni e pestaggi: così la Tunisia ferma i migranti. Chi non annega, viene deportato in Libia. A sostenere Saied sono le centinaia di milioni di euro di Bruxelles. Von der Leyen: «Decidiamo noi chi entra e chi no». E oggi Meloni è a Tripoli

Fermi immagine di un video caricato su TikTok: la Guardia nazionale tunisina aggredisce un barchino di migranti subsahariani

Lo scorso 19 giugno la Tunisia ha dichiarato ufficialmente la propria Zona di ricerca e salvataggio in mare (Sar), un’area che i paesi comunicano alle Nazioni unite per rendere più efficienti i recuperi delle persone in mare.

NEI FATTI, si tratta di un tassello fondamentale per l’Unione europea e i singoli Stati membri, impegnati da anni nel tentativo di esternalizzare le proprie frontiere marittime e affidare a paesi terzi il controllo del fenomeno migratorio. Nel corso degli anni Bruxelles e l’Italia in particolare hanno fornito mezzi, equipaggiamenti e tenuto corsi di formazione alla Garde nationale tunisina, il corpo securitario che si occupa delle operazioni marittime, per aumentare le capacità d’intervento e intercettazione.

Oggi, in quel tratto di mare, anche attraverso le forniture messe a disposizione dalla sponda nord del Mediterraneo si moltiplicano le denunce nei confronti delle autorità di Tunisi, accusate da più parti di pratiche violente che hanno portato in alcuni casi alla morte diretta o indiretta di persone migranti di origine subsahariana. Accuse che vanno avanti da più di un anno, almeno da quando la Tunisia ha superato la Libia per numero di partenze lungo la rotta del Mediterraneo centrale.

Speronamenti volontari, furti di motori, accerchiamenti pericolosi che causano onde alte e l’instabilità delle precarie imbarcazioni in ferro utilizzate per la traversata, lancio di gas lacrimogeni, pestaggi con bastoni e mazze d’acciaio. È nei racconti e nelle testimonianze di chi sopravvive alle intercettazioni la chiave per interpretare e conoscere il volto più violento della Garde nationale, apparato che dipende dal ministero degli interni e che da un anno si sta rendendo anche protagonista delle espulsioni di massa di migranti subsahariani verso le zone desertiche al confine con l’Algeria e la Libia. In alcuni casi non c’è solo la voce diretta di chi racconta.

Un’immagine satellitare – elaborata da Placemarks, progetto che analizza le immagini satellitari per evidenziare i cambiamenti ambientali, sociali e territoriali in corso nel continente africano – scattata la mattina del 6 aprile scorso del porto di Sfax, seconda città della Tunisia e zona dove si registra un alto numero di partenze, mostra circa 100 persone sdraiate o sedute lungo la banchina, di fronte ad alcune imbarcazioni della Garde nationale. Sono controllate a vista dalle autorità locali.

Migranti sudanesi accampati in un edificio abbandonato nella città di Zarsis, nel sud della Tunisia (foto di Giovanni Culmone)

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DA LÌ A QUALCHE ORA la maggior parte di loro si troverà espulsa in Libia e rinchiusa nei centri di detenzione. «Per tutta la notte le persone sono rimaste distese senza vestiti, cibo e acqua». Le parole sono di Ousman, originario del Gambia, che ha raccontato in tempo reale a il manifesto ciò che è successo quella mattina,

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NOMINE UE. Sale la tensione con Orbán: la Commissione boicotta la conferenza informale di Budapest. Il fronte economico è incandescente. I falchi del rigore chiedono il rispetto delle regole

Ursula von der Leyen foto Ap Ursula von der Leyen - Ap

Due giorni al voto su von der Leyen ripresidente della Commissione e FdI ancora non ha deciso cosa fare. Se in ballo ci fosse solo l’ormai famigerato «commissario di peso», in traduzione la Concorrenza per Raffaele Fitto, quasi non ci sarebbe problema. Ma il nodo è politico e si è aggrovigliato a destra in conseguenza di quel “fattore Trump” di cui nessuno parla apertamente ma che invece condiziona a fondo la situazione europea. Del resto immaginare che una rivoluzione alla Casa Bianca non si rifletta sull’Europa sarebbe ingenuo.

PROPRIO PERCHÉ la questione è politica i Fratelli in ambasce assegnano grande importanza all’incontro di stamattina tra la presidente e la delegazione dei Conservatori. La presidente del gruppo, Giorgia Meloni, non ci sarà. Dovrebbe però sentire al telefono la candidata.«Chiederemo discontinuità su diverse cose», preannuncia il copresidente del gruppo Nicola Procaccini. Ma che dall’incontro esca fuori qualcosa di concreto è molto improbabile anche se la candidata sta promettendo tutto a tutti. Garantire da un lato che «non ci sarà collaborazione strutturale con Ecr» e dall’altro dare soddisfazione programmatica alla stessa Ecr sembra però esercizio troppo spericolato persino per lei. Per Giorgia Meloni votare una commissione in continuità con quella precedente, con la quale peraltro è sempre andata d’accordissimo, è diventato quasi impossibile. L’ultima parola non è detta ma le probabilità di una astensione di FdI giovedì a Strasburgo si sono moltiplicate e rasentano l’inevitabilità.

Tutta colpa di Donald Trump. È l’eventualità ormai concreta di un ritorno del tycoon alla Casa Bianca che ha modificato gli equilibri della destra a Bruxelles e Strasburgo, determinando anche la stessa nascita dei Patrioti. La spinta di una vittoria di Trump sarebbe poderosa. Le ricadute sul fronte più nevralgico, quello della guerra, sarebbero immediate, perché il peso e il costo del conflitto ricadrebbero in misura molto maggiore su un’Europa i cui cittadini già nutrono sentimenti piuttosto tiepidi nei confronti di una situazione della quale non si vede una fine a breve. La destra di Orbán e Le Pen è pronta alla battaglia.

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LA SFIDA DI VIKTOR ORBÁN è da questo punto di vista esemplare. Ieri il premier ungherese ha scritto ai leader europei rivendicando la missione a Mosca e Pechino, quella che ha mandato fuori dai gangheri tutte le cancellerie europee, e mettendo nero su bianco il punto di vista opposto: «Se l’Europa vuole la pace deve elaborare e attuare un cambio di direzione». Allo stesso tempo il portavoce (e omonimo) del presidente fa sapere che nonostante le sfuriate europee le missioni «non autorizzate» ungheresi proseguiranno. Bruxelles medita di rispondere con un clamoroso gesto di rottura: boicottare la conferenza informale sugli esteri fissata a Budapest per il 28 e 29 agosto dalla presidenza di turno ungherese con la convocazione di un vertice ufficiale che impedirebbe a tutti i ministri degli Esteri di partecipare al vertice di Orbán. È una spaccatura che tra i governi vede oggi l’Ungheria isolata ma sostenuta da tutta la destra europea, tranne FdI, e in sintonia sia con il tycoon all’arrembaggio che con gli umori di una parte non esigua dell’opinione pubblica.

Il fronte del rigore è altrettanto incandescente. Ieri il commissario uscente all’Economia Paolo Gentiloni ha ricordato che tutti devono mettersi in regola con i parametri fiscali: «Non è un compito facile ma i piani di aggiustamento sono necessari, la traiettoria realistica». Gentiloni rilancia anche la proposta di debito comune: «È ora di immaginare nuovi strumenti di finanziamento comuni». Sul primo punto, il rigore, i falchi accorrono. Il ministro delle Finanze tedesco Lindner rincara: «Mi aspetto il rispetto delle regole da parte di tutti, anche della Francia e del suo prossimo governo». Sul secondo punto, invece, il pollice verso scatta con altrettanta immediatezza, con l’Olanda che al solito si incarica di dar voce a quel che pensano Berlino e i frugali: «Il debito comune? Non serve».

IN QUESTO CLIMA la nuova presidenza von der Leyen è diventata il simbolo stesso dell’Europa di sempre, quella che la destra vuole abbattere. La premier italiana con Ursula von der Leyen aveva lavorato benissimo e sulla guerra la pensa come Biden. Ma esita a fare un passo che equivarrebbe alla rottura profonda con il resto della destra europea. Lo stesso vento americano scuote la destra anche nei confini nazionali. La guerriglia leghista è stata sinora solo il tentativo un po’ sgangherato di conquistare visibilità. Ora ha per la prima volta una valenza strategica e per questo si dispiega a tutto campo, al punto da far ipotizzare una convergenza con il Pd contro il decreto sulle liste d’attesa di Meloni. Il capogruppo del Carroccio Massimiliano Romeo smentisce: «Tutte sciocchezze». L’ultima parola però non è detta

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