RIFORME. In audizione il professor Frosini svela i progetti della destra sulla legge elettorale. E quelli per preservarla dal rischio incostituzionalità
Protesta dei senatori dell’opposizione durante le votazioni sull’elezione diretta del premier foto LaPresse
La ministra per le riforme Maria Elisabetta Casellati difficilmente si fa beccare in castagna. È sempre stata presente in Senato alle sedute della Commissione e dell’Aula sul premierato, senza mai farsi sostituire da un sottosegretario, e altrettanto sta facendo in Commissione Affari costituzionali della Camera, dove sta assistendo a tutte le audizioni, pur non essendo tenuta a farlo. A mettere in difficoltà lei, il governo e la maggioranza è stata l’eccessiva solerzia di uno dei costituzionalisti “amici” chiamato a difendere il testo. Il professor Tommaso Edoardo Frosini, docente di diritto pubblico comparato presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, martedì scorso in audizione ha svelato non solo la legge elettorale a cui la ministra sta lavorando, ma anche il piano per aggirare la quasi certa censura di incostituzionalità da parte della Consulta.
SULLA LEGGE ELETTORALE da accoppiare al premierato elettivo, Casellati aveva fatto capire nelle scorse settimane la direzione a cui stava lavorando, quella di una formula a turno unico, e infatti aveva citato «un sistema tipo Mattarellum o tipo Provincellum»: collegi uninominali a turno unico, così da evitare il ballottaggio inviso alla Lega. Frosini, che è tra i “consiglieri del principe” in materia ha esplicitato il tutto: ha «suggerito» – benché l’audizione non vertesse su questo – il Mattarellum usato per il Senato, vale a dire «il 75% dei seggi in collegi uninominali con recupero dei migliori perdenti» (in realtà la formula è più articolata e presenta diverse criticità).
«Il restante 25% – ha proseguito – che il Mattarellum prevedeva di distribuire in via proporzionale, può essere assegnato come quota di premio per la maggioranza. Ma una quota mobile, non fissa, fino al 25%». Quindi «se la maggioranza è autosufficiente con i collegi uninominali, cioè, giunga al 55% da sola, quel 25% andrà distribuito proporzionalmente ai migliori perdenti. Di quel 25% – ha spiegato – ne può servire il 10% per raggiungere il 55%, il che vuol dire che il restante 15% potrà essere distribuito proporzionalmente». E poi l’autoelogio: «Mi sembra una previsione di legge elettorale abbastanza equanime» ha chiosato. Quanta magnanimità! Vae victis, come disse Brenno.
Strage di Bologna, Meloni attacca i parenti delle vittime
Non importa, come ha osservato il giorno dopo in audizione Peppino Calderisi, che si sommerebbero due meccanismi maggioritari (il collegio uninominale e il premio di maggioranza). E non importa che un altro giurista sostenitore del testo, chiamato in audizione dalla maggioranza, il professor Luca Longhi (docente di Istituzioni di diritto pubblico presso l’Università telematica Pegaso), abbia detto che l’elezione diretta richiede il ballottaggio. «Il ballottaggio non è dirimente – ha detto Frosini – si può eleggere come avviene per i presidenti di Regione anche a turno unico».
E LE SENTENZE della Corte costituzionale contro il Porcellum (la numero 1 del 2014) e contro l’Italicum (la numero 35 del 2017)? E qui nella foga laudatoria il professore si è lasciato scappare ciò che non doveva: «C’è l’obiezione che più volte viene evocata, francamente in maniera un po’ stantia, che ci sono le sentenze della Corte, ma che vuol dire? Primo: la Corte nel nostro sistema non ha l’obbligo del precedente, la Corte può cambiare la propria giurisprudenza, ci mancherebbe».
Per carità, ci mancherebbe! E poi la rivelazione del piano B della maggioranza: «Secondo, il collegio che giudicherà, ammesso e non concesso che arrivi alla Corte, sarà completamente diverso da quello che si è già pronunciato». Immediato sobbalzo dei parlamentari dell’opposizione. Il piano B è, trumpianamente, cambiare il collegio della Corte plasmandolo a propria immagine e somiglianza.
ECCO ALLORA SPIEGATA la resistenza della maggioranza a nominare il giudice costituzionale in sostituzione di Silvana Sciarra. Si è scritto e riscritto che le destre attendono che concludano a fine dicembre il loro mandato anche altri tre giudici (il presidente Augusto Barbera, Franco Modugno e Giulio Prosperetti) di elezione parlamentare, così da puntare a una elezione a “pacchetto”: un giudice alle opposizioni (magari di M5s in passato incline ad accordi su Csm e Rai) e tre a se stessa per altrettanti giuristi di area pronti a ribaltare la giurisprudenza precedente in materia di legge elettorale. E magari tra essi ci potrebbe essere lo stesso Frosini
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“Al saviva tot”. Lo sapevate tutti. Detta così, in dialetto, al telefono, l’espressione intercettata nell’ambito dell’inchiesta “Bosco perduto” non lascia margine alle interpretazioni: tutti, secondo gli stessi interlocutori, erano a conoscenza che tra la centrale a biomassa Dister Energia con sede a Faenza e le due aziende fornitrici di legname, la manfreda Recywood e la forlivese Enerlegno, c’era un accordo per lucrare sugli incentivi statali destinati alle energie rinnovabili. Chi più, chi meno, conoscevano anche le proporzioni di quella che la Procura di Ravenna ha inquadrato come una truffa milionaria ai danni dello Stato. E temevano infine le possibili conseguenze, che in effetti si sono concretizzate in questi giorni: un sequestro pari a 7,7 milioni di euro e sette ordinanze interdittive nei confronti di tre manager della centrale e quattro dirigenti delle altre due aziende, che ora non potranno esercitare attività professionali, imprenditoriali o direttive in tutta la filiera delle energie rinnovabili e in qualsiasi altro settore agevolato da contributi pubblici.
Nelle conversazioni ascoltate dalle Fiamme gialle di Forlì e dai Carabinieri forestali, il nome di Mario Mazzotti torna più volte, ma lui al telefono non rilascia parole compromettenti. Un «apprezzabile indice di esperienza» forse maturato dai passati incarichi da amministratore rimarca il giudice per le indagini preliminari Corrado Schiaretti, che individua nel 67enne legale rappresentante della centrale a biomassa, «il vertice del meccanismo». Restio a parlare al telefono, lui, ma non i sodali, che per tutto il corso dell’inchiesta «cercano di salvaguardare Dister e il suo presidente dalle ricadute negative dell’indagine».
Con lui, altra figura centrale, è quella del responsabile di Recywood, il cui ruolo chiave consentiva, secondo l’accusa, di recuperare legno triturato per la centrale non tracciato e in teoria non soggetto agli incentivi, trasformandolo attraverso un gioco di prestigio di fatture false e bolle di trasporto doppie (una vera e una alterata per dribblare eventuali controlli) in carichi di legname da filiera corta, soggetti a incentivi statali massimi poiché in apparenza recuperati da aree boschive da diradare o frutteti da espiantare entro un raggio di 70 chilometri dalla centrale.
Proprio lui al telefono, comprendendo che l’inchiesta partita seguendo le tracce del legno sottratto indebitamente dalle Foreste Casentinesi rischiava di far scoprire la maxi frode, commenta: “Vediamo cosa potere tirare fuori dal cilindro”, per poi affrettarsi a precisare (secondo gli inquirenti temendo di essere intercettato) “ci sono stati degli errori, ma della malafede non c’è”.
Sempre lui, con il vicepresidente della Dister Energia, insiste sulla necessità di cercare “una strategia difensiva coi nostri avvocati” per trovare “la meno, diciamo, impattante per quello che sono gli effetti collaterali su Dister” temendo di “aprire un fronte che devo dire più ci penso più ritengo che sia possibile che si apra”. Ma l’inchiesta ormai è avviata. Tant’è che di lì a poco dilagano le raccomandazioni su una maggiore prudenza: “Eh, e al telefono è meglio che la gente faccia poche chiacchiere”.
Non mancano i diversivi per salvare la centrale, ritenuta dagli indagati la realtà più importante del gruppo. Come il tentativo di trovare un capro espiatorio: il direttore tecnico della Recywood, che in un consiglio di amministrazione del 2020 rassegna le dimissioni assumendosi la piena responsabilità. Un passaggio smascherato dalle successive reazioni dei colleghi a sostegno: “In realtà lo sapevano tutti come era”. Una cosa “grossettina”, ammette dal canto suo il direttore tecnico.
Trascorsi un paio di danni dalle prime avvisaglie, è ancora il vice della centrale a insistere sulla necessità di un incontro con i presidenti, ormai certo che dal problema del legname sottratto al Demanio dai boschi dell’Appennino si sarebbe aperto “il tema delle certificazioni... e quel tema lì può andare a cadere ovviamente su Dister”. Ma a quel punto le quantità erano ormai enormi: 100mila l’anno le tonnellate mimetizzate come “filiera corta”. Troppe per essere spacciate per un errore. Fossero state “100 tonnellate - continua il dirigente - al limite dici vabbè ha sbagliato, ma qui è un po’ dura”. L’unica alternativa, spiattellata sempre al telefono: dire “come stanno realmente le cose, anche coi nostri legali, e impostare una linea difensiva che sia quella che ci crea meno nemici in giro”. Già, perché anche altrove, così pare, tutti sapevano.
Commenta (0 Commenti)LI FERMI CHI PUÒ. Il partito sciita libanese è deciso a vendicare l’assassinio di Shukr. In Qatar sepolto Haniyeh. Biden: la sua uccisione non aiuta
L’oscurità è scesa ieri sulla costa orientale mediterranea segnando l’inizio di una notte considerata da molti in Israele e Libano decisiva per la risposta di Hezbollah – annunciata giovedì dallo stesso leader sciita Hassan Nasrallah – all’assassinio del suo comandante militare Fuad Suk assieme a quella dell’Iran per l’uccisione a Teheran del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh. Solo questa mattina sapremo la concretezza di quelle sensazioni. Ad altri invece l’attacco a Israele, responsabile delle due uccisioni, non appare una questione di ore. Ski News Arabia, ad esempio, citando fonti di intelligence occidentali, ha detto che l’azione coordinata di Hezbollah, Iran e altre forze contro Israele scatterà tra il 12 e il 13 agosto, nel giorno Ticha B’Av quando si commemora la distruzione del Tempio ebraico.
Indiscrezioni riferiscono di Hezbollah starebbe spostando, in vista di una guerra totale con Israele, equipaggiamento militare e centri di comando dalla periferia sud di Beirut, la sua roccaforte, nel centro della capitale libanese. I libanesi si sono convinti che una nuova guerra sia inevitabile dopo l’uccisione di Fuad Shukr, ma la maggioranza dei cittadini ritiene che durerà poco e sarà distruttiva solo nelle aree del paese controllate da Hezbollah. Un’ipotesi che potrebbe rivelarsi drammaticamente inesatta.
In Israele non sono state ancora date ai civili le istruzioni che di solito accompagnano queste circostanze. Il Fronte interno dell’esercito ha comunicato poche cose alla popolazione, tra queste le frequenze in Fm sulle quali sintonizzare le vecchie radio chiuse da anni nel ripostiglio di casa in modo da ricevere istruzioni dalla Protezione civile durante la possibile guerra. Gli israeliani credono che Hezbollah farà il possibile, se ci sarà una guerra ampia, per colpire con i suoi razzi e droni la rete elettrica, quella della telefonia mobile e Internet. Timore confermato dalla notizia che il premier Netanyahu e i ministri hanno ricevuto giovedì sera telefoni satellitari da usare in caso di emergenza in alternativa ai cellulari. Gli israeliani fanno provvista di acqua e di alimentari ma senza particolare agitazione e comunque esiste un elenco di supermercati che rimarranno aperti sempre, anche in caso di guerra. Intanto sulle strade del paese continuano i movimenti di giganteschi autocarri che trasportano i missili antiaerei Patriot da sud alla Galilea, nel nord. Gli ospedali si sono organizzati per l’afflusso di un gran numero di feriti e hanno allestito dipartimenti d’emergenza nei parcheggi sotterranei.
Tra i palestinesi l’ansia della guerra non c’è. Almeno non tra quelli della Cisgiordania e Gerusalemme Est. E non solo perché ritengono che attacchi e rappresaglie militari interesseranno marginalmente i Territori occupati. Per i palestinesi, lo scontro di Israele con Iran e Hezbollah si inserisce in un quadro già tragico in cui Gaza è stata distrutta in gran parte e almeno 40mila persone sono state uccise dai bombardamenti aerei e dall’avanzata delle forze corazzate israeliane. Quindi, il conflitto in arrivo per i palestinesi è solo un tassello di una situazione catastrofica. «Come può preoccuparci una guerra al nord quando ogni giorno vediamo bambini uccisi dalle bombe israeliane a Gaza, case rase al suolo e la nostra gente che soffre per la fame e le malattie. La guerra l’abbiamo già in Cisgiordania da lungo tempo. L’esercito israeliano entra ed esce dalle nostre città e uccide tanti giovani. Anche qui a Gerusalemme Est affrontiamo tanti problemi», ci diceva ieri Tareq Abu Kias (non è il nome vero), un abitante di Silwan, popoloso quartiere palestinese ai piedi delle mura della città vecchia.
Venerdì di preghiera per i musulmani, così ieri tanti palestinesi hanno recitato il corano in segno di lutto per l’assassinio di Ismail Haniyeh. Soprattutto a Gaza dove il capo di Hamas era nato e aveva vissuto gran parte della vita nel campo profughi di Shate. Dalla Striscia sono giunte immagini di persone che pregano in ogni spazio possibile e commemorano Haniyeh. Se Israele intende «sradicare» Hamas da Gaza, come tante volte ha proclamato Netanyahu, uccidendo il suo capo politico lo ha solo reso più popolare tra i palestinesi. Ieri, il movimento islamico e altre organizzazioni combattenti, sono state in grado di lanciare 18 razzi verso il territorio israeliano, dimostrando di avere ancora risorse e forze. Joe Biden ha detto a Netanyahu che l’uccisione di Haniyeh non aiuta la trattativa per la liberazione degli ostaggi israeliani a Gaza. Centinaia di persone ieri si sono riunite nella più grande moschea a Doha, in Qatar, per pregare in memoria del capo di Hamas. La salma di Haniyeh giunta da Teheran, avvolta dalla bandiera palestinese, è trasferita al cimitero di Lusail, a nord di Doha, per la sepoltura. La Turchia ha messo la sua bandiera a mezz’asta all’ambasciata di Tel Aviv e al consolato di Gerusalemme scatenando l’ira di Israele.
Il quotidiano saudita Al Sharq al Awsat scriveva ieri che Israele negli ultimi giorni non ha ucciso soltanto Shukr, Haniyeh e il capo militare di Hamas, Mohammed Deif (notizia smentita dal movimento islamico). Nei giorni scorsi, riferisce il giornale, Tel Aviv avrebbe colpito a morte, in un tunnel sotterraneo, due dirigenti del politburo di Hamas, tra cui Rahwi Mushtaha, e tre ufficiali delle Brigate Al Qassam. «Fate sapere a chi attacca i cittadini dello Stato di Israele che siamo pronti ad andare lontano, a raccogliere informazioni molto precise, a colpire e a uccidere», ha detto minaccioso il capo di Stato maggiore Herzi Halevi parlando con i riservisti dell’esercito nel Corridoio Netzarim costruito da Israele e che taglia in due orizzontalmente la Striscia. «Abbiamo colpito a Beirut e stiamo colpendo a Gaza, saremo molto forti in difesa e poi colpiremo con forza», ha aggiunto. Sul colpire non ci sono dubbi, e a perdere la vita sono quasi sempre i civili palestinesi. A Gaza city quattro membri della famiglia Abu Hashem sono stati uccisi da una bomba. I palestinesi denunciano inoltre la morte in carcere in Israele di Omar Jneid, 26 anni, a causa, affermano, di abusi e maltrattamenti
Commenta (0 Commenti)«Le radici del postfascismo stragista sono a pieno titolo nel governo italiano». L’affondo dei familiari delle vittime della strage di Bologna scatena il vittimismo di Meloni. E Mattarella resta solo nel denunciare con chiarezza la bomba neofascista e le complicità dello stato
L'ANNIVERSARIO. Il messaggio da Parigi: «Da Bolognesi parole gravi e pericolose» Scontro duro anche con il Pd. Schlein: «Operazione deplorevole». Mattarella e la bomba: «Strategia eversiva neofascista per aggredire la libertà degli italiani»
Botta, risposta e furiosa polemica tra il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna Paolo Bolognesi e la premier Giorgia Meloni. Il quarantaquattresimo anniversario della bomba che provocò 85 morti e oltre 200 feriti diventa così l’ennesimo episodio di scontro sulla memoria repubblicana. Ad aver infiammato la premier sono state queste parole dette da Bolognesi: «Le radici di quell’attentato affondano nella storia del postfascismo italiano: Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale oggi figurano a pieno titolo nella destra italiana di governo». E ancora, sulla stretta attualità: «La separazione delle carriere dei magistrati era un progetto della P2», cioè della loggia massonica che secondo gli inquirenti di Bologna avrebbe organizzato e finanziato la strage.
DURA LA REPLICA di Meloni, che si dice «profondamente e personalmente colpita» da quelli che ritiene «attacchi ingiustificati»: «Sostenere che le “radici di quell’attentato oggi figurano a pieno titolo nella destra di governo”, o che la riforma della giustizia varata da questo governo sia ispirata dai progetti della loggia massonica P2, è molto grave. Ed è pericoloso, anche per l’incolumità personale di chi, democraticamente eletto dai cittadini, cerca solo di fare del suo meglio per il bene di questa Nazione». In apertura anche un altro passaggio controverso, là dove si parla della strage «che le sentenze attribuiscono a esponenti di organizzazioni neofasciste». Un giro di parole poco prima utilizzato anche dal presidente del Senato Ignazio La Russa. La verità, in sostanza, è solo giudiziaria, non necessariamente anche storica: sembra una sfumatura, ma è quasi mezzo secolo che l’equivoco prospera.
Un passo indietro rispetto a quanto sostenuto dal ministro degli Interni Matteo Piantedosi nella sua intervista uscita ieri sul Corriere della Sera, in cui la definizione è netta: «Strage neofascista». A voler essere precisi, però, anche in questo discorso manca un particolare: la partecipazione di pezzi dello stato, a partire da Federico Umberto d’Amato, forse il poliziotto più celebre della storia italiana. Un passaggio che troppo spesso viene dimenticato.
AD OGNI MODO, le parole di Meloni hanno scatenato diverse reazioni, a partire da quella della segretaria del Pd Elly Schlein: «Fare la vittima attaccando il presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime nel giorno in cui si commemorano gli 85 morti e i 200 feriti dell’infame strage neofascista alla stazione di Bologna è un’operazione deplorevole», ha detto. E
Leggi tutto: Strage di Bologna, Meloni attacca i parenti delle vittime - di Mario Di Vito
Commenta (0 Commenti)PALESTINA. Sono passati 300 giorni dall'inizio del genocidio del popolo palestinese di Gaza. 39.480 gli uccisi, 10 mila i dispersi, 91.128 i feriti. Oltre i numeri ci sono le storie di persone in carne e ossa, di intere comunità e famiglie che, da più di 9 mesi, vengono sottoposte a orrori quotidiani.
Macerie di un edificio a Khan Younis dopo un attacco israeliano - Ap
Trecento giorni fa iniziava il massacro dei palestinesi di Gaza. Da allora 39.480 persone sono state uccise, 10 mila disperse, 91.128 ferite. Insieme compongono il 6% dei 2.2 milioni abitanti della Striscia (cifra pre-guerra). Le statistiche, però, non raccontano tutto. O meglio, siamo noi che fatichiamo a cogliere il racconto nella sua interezza, a ricordarci che anche un numero così grande come 39.480 è composto da tanti uno e che quegli uno sono persone in carne e ossa. Il ricercatore dell’università dell’Oregon Paul Slovic parla di “intorpidimento psichico”, un fenomeno umano secondo il quale ci viene molto più facile provare compassione per un singolo individuo che per un gruppo di persone. Più i numeri salgono, più diventiamo insensibili alla tragedia.
Fra gli uccisi, 16.314 sono bambini. Una di loro è Dounia, dodici anni, era all’ospedale Nasser di Khan Younis quando una granata da carrarmato ha colpito il dipartimento pediatrico dove era ricoverata. Prima di perdere la vita, aveva perso i genitori, il fratello e la sorella in un attacco aereo che la aveva lasciata senza una gamba.
Almeno 35 persone sono morte di fame, la maggior parte di loro erano bambini. Secondo degli esperti incaricati dall’Onu, la grave malnutrizione ora non colpisce più solo il nord di Gaza, ma si è diffusa nel centro e nel sud della Striscia. Colpevoli sono gli incessanti attacchi israeliani che non conoscono “zone sicure”: dall’offensiva militare del 5 maggio sulla città meridionale di Rafah, gli aiuti umanitari entranti a Gaza sono diminuiti del 67%, stimava l’Onu a fine maggio. Secondo il database Unrwa, se 5.671 camion di aiuti umanitari hanno raggiunto la Striscia nel mese di aprile, sono solo 909 i camion consegnati a luglio. Più di sei volte meno rispetto a una quantità che era comunque ampiamente insufficiente a soddisfare i bisogni primari della popolazione.
Israele ha sganciato 82 mila tonnellate di esplosivo contro Gaza dall’inizio del conflitto, riporta Al-Jazeera. Queste hanno raso al suolo 150 mila unità abitative. Il Burj al-Taj 3 era un edificio residenziale moderno nel centro di Gaza city che ospitava trecento persone divise in trenta appartamenti. Viene fatto esplodere il 25 ottobre e la scena è catturata da un video pubblicato dall’esercito israeliano. La didascalia: “attacco a un tunnel terroristico di Hamas”. Le testimonianze dei sopravvissuti compaiono in un’inchiesta di Der Spiegel, secondo la quale nel seminterrato dell’edificio viveva la famiglia Balousha; genitori, nonno, zia e sette ragazzini. Vengono tutti seppelliti dalle macerie, la madre Rawan non riesce a muoversi ma continua a respirare, sua figlia diciottenne Nagham è insieme al nonno in una cavità che si è creata sotto i detriti. Sentono la sorella dodicenne Lee allucinare e poi tacere all’improvviso. Nagham urla chiedendo aiuto per ore e, dopo un po’, un trattore per poco non la schiaccia. Solo dopo 24 ore lei, la madre e il nonno vengono soccorsi: sono gli unici sopravvissuti.
Le bombe hanno completamente distrutto anche 206 siti archeologici, 3 chiese e 610 moschee. Della moschea più antica di Gaza, conosciuta come Grande Moschea Omari, rimangono solo rovine dopo un attacco aereo israeliano: era stata eretta nel settimo secolo sul sito di una chiesa bizantina e, danneggiata diverse volte nel corso degli anni da conflitti – i britannici la hanno bombardata durante la Prima guerra mondiale – e da un terremoto, è sempre stata riscostruita.
117 fra scuole e università di Gaza non esistono più, mentre altre 117 sono state parzialmente distrutte o rese inabitabili. A soli 100 giorni dall’inizio dell’offensiva, nessuna struttura universitaria era funzionante. Gli esperti delle Nazioni unite parlano di “scolasticidio”, ritenendo «ragionevole chiedersi se ci sia un tentativo intenzionale di distruggere completamente il sistema educativo palestinese».
Quando Israele ha ucciso sette operatori umanitari della World central kitchen il primo aprile, lo ha definito come «un incidente isolato». Human rights watch (Hrw) ha invece identificato almeno altri sette casi in cui membri di organizzazioni umanitarie come Medici senza frontiere o agenzie Onu come Unrwa sono state attaccati dopo aver coordinato il loro accesso con le autorità israeliane. L’8 gennaio un proiettile israeliano ha ucciso la figlia di 5 anni di un operatore di Msf che si trovava in un edificio a Khan Younis con altri 100 operatori dell’associazione.
I giornalisti sul campo sono stati e sono tutt’ora fondamentali nel riportare gli orrori quotidiani di Gaza. Secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj), che parla di un «evidente tendenza a bersagliare i giornalisti e le loro famiglie», almeno 111 sono stati uccisi dall’inizio di ottobre. Per il governo di Gaza, il bilancio sale a 165. Due giorni fa il giornalista di Al-Jazeera Ismail al-Ghoul e il suo cameraman Rami al-Rifi sono stati ammazzati a Gaza ovest da un attacco aereo israeliano contro la loro vettura. La loro collega Hind Khoudary riferisce l’accaduto da Deir al-Balah sottolineando che «facciamo tutto il possibile, indossiamo le casacche blu della stampa, gli elmetti, non andiamo in luoghi non sicuri ma veniamo presi di mira in posti normali dove ci sono cittadini normali»
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A Teheran i funerali del capo di Hamas. L’Iran giura vendetta, Hezbollah: «Piangerete». E Israele prepara l’invasione del Libano. Trecento giorni di guerra a Gaza non bastano alle diplomazie globali: Medio Oriente sull’orlo di una guerra ancora più grande
LI FERMI CHI PUÒ. Discorso incendiario del leader di Hezbollah ai funerali di Shukr. Scontri al confine, un raid israeliano uccide una famiglia siriana
Il discorso in tv di Hassan Nasrallah - Epa/Wael Hamzeh
«Non capite che tipo di linea rossa avete oltrepassato. Il nemico dovrà aspettarsi collera e vendetta. Siamo entrati in una nuova fase, in relazione a tutti i fronti di supporto. Israele gioisce adesso. Hanno ucciso Sayyed Mohsen (Fuad Shukr) e Ismail Haniyeh a distanza di poche ore. Ridete adesso, ma presto piangerete». Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, è caustico nel suo discorso in occasione dei funerali del comandante Shukr, ucciso nell’attentato di lunedì sera a Beirut.
IL PARTITO/MILIZIA non può permettersi di non rispondere o di farlo in maniera blanda. Ne andrebbe della sua reputazione tra i sostenitori e a livello internazionale. Se l’attentato del 2 gennaio, nel quale Israele aveva ucciso il numero 2 di Hamas, Saleh Aruri, sempre nella Dahieh (periferia a sud di Beirut controllata da Hezbollah) poteva anche essere considerato solo un colpo indiretto al Partito di Dio, l’uccisione di Shukr ha tutt’altro peso.
Una risposta solo formale sarebbe un invito a bombardare Beirut ogni volta che Israele ne senta la necessità. L’uccisione del numero due di Hezbollah, come quella del capo politico di Hamas, Haniyeh, a poche ore di distanza dal punto di vista militare/strategico non rappresenta molto: «Quando uno dei nostri comandanti arriva al martirio, lo rimpiazziamo rapidamente con uno dei suoi allievi. Abbiamo un’eccellente nuova generazione di comandanti», precisa Nasrallah. Ma il valore di quest’omicidio, in questo momento, in questo luogo, in questo modo è altamente simbolica. La Dahieh, dove si trovava il palazzo colpito dal drone israeliano, è il cuore beirutino della resistenza sciita, il quartier generale di Hezbollah nella capitale.
«GLI ISRAELIANI non sanno da dove verrà la risposta. E Israele non sa verso cosa sta andando. La decisione la lasciamo al campo. È il campo che sa quello che si deve fare. Noi cercheremo una risposta reale, non di facciata. Cercheremo una risposta studiata», continua la massima carica del Partito di Dio. Migliaia in strada nella Dahieh, galvanizzati, cantano
Leggi tutto: Nasrallah rilancia: «Risponderemo». Il Libano trema - di Pasquale Porciello, Beirut
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