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Reportage. Odessa, così sempre più maschi in età di leva combattono l’arruolamento

 

In due mi fanno strada attraverso i cortili del quartiere Kyivisky, prima periferia di Odessa, e quindi primi palazzi di dodici piani fra la pianura soleggiata dell’Ucraina e le coste del Mar Nero. Su una panchina sotto a un tiglio davanti alla sua casa è seduto un tale di nome Roman, trent’anni compiuti da poco, capelli corti, calzoni corti, una lattina da mezzo litro di bibita energetica che passa da una mano all’altra. Il giorno prima lo ha fermato una pattuglia del Tzk, l’organismo del ministero della difesa a cui spetta il compito di reclutare gli uomini per l’esercito.

A GIUDICARE dallo sguardo si direbbe che questo Roman abbia visto i fantasmi. Mentre fuma racconta: «Ho mostrato loro i documenti, li hanno controllati, hanno detto che c’era una irregolarità e che avrei dovuto seguirli in caserma per risolverla. Sarà questione di mezz’ora, così hanno detto. La mia grande fortuna è stata capire subito che cosa stava accadendo. Ho chiamato la mia compagna, lei ha sentito l’avvocato e in pochi minuti mi hanno fatto sapere tutto quel che avrei dovuto dire per evitare di essere arruolato. Dico che è stata la mia fortuna perché, una volta in caserma, mi hanno portato via i documenti e il telefono, mi hanno fatto visitare da un medico e da uno psicologo, e poi hanno cominciato con le pressioni: perché non hai ancora risposto alla mobilitazione? Tu non vuoi difendere il tuo paese? Non sei forse un uomo, tu? Ho tenuto duro, ho citato gli articoli di legge che l’avvocato aveva suggerito, ho gridato in ogni modo che non mi avrebbero mandato al fronte a morire. Stamattina mi hanno messo in mano una multa e mi hanno detto di andare via, ma la notte l’ho passata con settanta uomini, tutti nella mia stessa condizione, e non so quanti di loro oggi siano liberi».

A DUE ANNI E MEZZO dall’inizio della guerra, la fuga dalla mobilitazione rappresenta sul piano militare un problema significativo per l’esercito ucraino, e diventa su quello politico una questione sempre più seria per il presidente Volodymyr Zelensky, come dimostrano le proteste anche violente contro il Tzk in diverse parti del paese. È il primo, concreto segnale di tensione nei rapporti fra il governo e i cittadini al tempo della legge marziale.

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A Odessa, con un milione di abitanti terza città dell’Ucraina dopo Kiev e Kharkiv, decine di migliaia di persone decidono ogni giorno che cosa fare dopo avere consultato un canale Telegram il cui nome può essere tradotto con l’espressione “Andrà tutto bene”: messaggi a ciclo continuo che gli stessi utenti contribuiscono ad aggiornare permettono di conoscere l’esatta posizione dei posti di blocco del Tzk, le targhe delle auto di pattuglia, il numero di agenti nei centri commerciali, nelle piazze, nelle spiagge, nei locali pubblici. Quanti siano esattamente quelli che rifiutano di entrare nell’esercito è difficile da stabilire, anche perché sulla questione le autorità mantengono il riserbo più stretto, ma quel il canale Telegram è nato soltanto lo scorso dicembre e ha già 140mila iscritti. Lungo le strade di Odessa si svolge, insomma, un enorme guardie e ladri quotidiano.

SULL’OPERATO DEL TZK le critiche sono numerose e documentate da un’ampia serie di scandali. Proprio un anno fa Zelensky ha licenziato ogni singolo responsabile regionale della rete di arruolamento: anziché fornire reclute all’esercito, questa l’accusa, usavano i loro enormi poteri per raccogliere mazzette. Da allora i vertici sono cambiati, ma lo stato delle cose sembra più o meno il medesimo. La legge marziale impedisce agli uomini di lasciare il paese. Zelensky ad aprile ha abbassato l’età della mobilitazione da 27 a 25 anni per placare lo stato maggiore, che chiedeva mezzo milione di nuove reclute.

Chi aveva i mezzi per partire, e si tratta in sostanza di mezzi economici, già si trova all’estero. Agli altri sono rimaste tre alternative. Combattere, nascondersi, oppure pagare. Chiunque a Odessa ne parla apertamente, come se fosse la cosa più normale del mondo. Settemila dollari per corrompere qualche funzionario ed evitare la chiamata, è così che si dice in città, fra i quindici e i ventimila per fuggire illegalmente in Polonia, in Ungheria, in Slovacchia, in Moldavia o in Romania. Proprio questa settimana, nel villaggio di Stanislavke, fra la regione di Odessa e la repubblica non riconosciuta della Transnistria, la polizia ha fermato un camion a una manciata di chilometri dalla frontiera. Nel rimorchio erano nascosti quarantotto uomini. Secondo le quotazioni di cui si discute, quel carico umano, uno soltanto, doveva valere quasi un milione di dollari, il che aiuta a comprendere le dimensioni complessive dell’affare.

«IL PROBLEMA non è il patriottismo», mi dice Artur, trentaquattro anni, che ha lasciato qualche mese fa il lavoro in un fast food proprio per sfuggire alla mobilitazione e ora vive con duecento euro al mese vendendo pezzo dopo pezzo qual che si ritrova a casa, nel quartiere periferico Peresypsyi: «Il giorno stesso che i russi ci hanno invaso sono entrato in una caserma e ho lasciato tutti i miei dati. Il nome, l’indirizzo, il numero di telefono e quello del passaporto. Volevo partire subito. Per qualche ragione non mi hanno mai chiamato. Se lo avessero fatto, adesso sarei morto. Oggi è diverso, oggi non voglio combattere perché l’esito della guerra è chiaro a tutti e non si capisce che senso abbia continuare a mandare gente al fronte per morire».

L’opinione è personale, ma si sente spesso a Odessa. I sondaggi nazionali vanno, in un certo senso, nella stessa direzione. A maggio l’Istituto internazionale di sociologia di Kiev ha registrato un netto aumento di cittadini favorevoli alla pace, anche a costo di perdere le quattro regioni di Lughansk, Donetsk, Zaporizhzha e Kherson che la Russia vuole annettere: nel 2023 erano il 10 per cento della popolazione, oggi sono il 32. Secondo l’Istituto nazionale democratico, il 57 per cento vorrebbe già da ora negoziati diretti con il Cremlino.

I soprusi sui civili e i casi di corruzione hanno trasformato il Tzk nel corpo più oscuro dello stato. Gli agenti del servizio sono chiamati abitualmente “ladri di uomini”. Questa settimana nella cittadina di Kovel, a est, decine di persone hanno preso d’assalto un centro di reclutamento per liberare due ragazzi di diciotto anni. A Kiev la polizia ha fermato martedì un giovane sceso in strada a protestare con due cartelli che dicevano: “Il Tzk continua a rapire persone”; “La guerra non è un buon motivo per costruire una dittatura”.

ZELENSKY si è per ora guardato dall’associare questi eventi, locali e isolati, ma sempre più numerosi, alle infiltrazioni russe che pure nel paese esistono, e che continueranno a esistere. Conosce l’umore del suo popolo, sa che un limite esiste, ha detto più volte che la guerra dovrà arrivare presto a una fine. Eppure la macchina del reclutamento funziona a pieno regime. Ovunque a Odessa lo spazio delle insegne pubblicitarie è occupato dall’esercito. Nel centro della città, su un tratto della strada Rishelevska lungo trenta metri fra vetrine e tavoli dei ristoranti, ci sono quattro cartelloni uno di fila all’altro. Battaglione Azov, Lupi di Da Vinci, Marina militare, Terza brigata separata d’assalto. Ricordano i manifesti delle campagne elettorali. Qui, però, non è di voti che si tratta. Ancora si cercano volontari per il fronte

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Governo. Dl con misure prive di urgenza e senza omogeneità. Ignorato Mattarella e anche il presidente della Camera, Fontana

Decreto Omnibus: mance a pioggia, i nodi a settembre La conferenza stampa a Palazzo Chigi dopo il consiglio dei ministri - Palazzo Chigi

Il decreto Omnibus licenziato ieri dal consiglio dei ministri è talmente disomogeneo da essere peculiare anche per il livello medio dell’esecutivo. Nell’ultimo atto del governo prima della pausa estiva ci sono indicazioni fiscali e quelle sul trasferimento dei puledri, fondi post crollo a Scampia e fondi per i festival «identitari».

QUELLO CHE NON È peculiare è, invece, il metodo che Meloni e il suo esecutivo stanno portando avanti dall’inizio della legislatura. Ricorso continuo ai decreti, esautoramento del ruolo delle Camere con i parlamentari che devono solo ratificare quanto deciso altrove, tempi contingentati per la discussione nelle commissioni, emendamenti dell’opposizione respinti in blocco, richiesta della fiducia. Sul primo punto si era più volte espresso il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ma anche quello della Camera, Lorenzo Fontana, aveva chiesto alla premier, in una missiva, di ridurre l’eccesso della decretazione d’urgenza.

Il resto sta nelle cronache parlamentari di questi mesi e questo decreto non fa eccezione. Dovrà essere approvato entro 60 giorni. La metà di questi saranno persi tra chiusura delle Aule e lenta ripresa dei lavori (dopo la prima settimana di settembre). Rimarrà quindi solo un mese.

Se i partiti di opposizione da mesi denunciano questo tipo di pratica (solo a luglio sono stati approvati nove decreti, dati Openpolis), quelli della maggioranza brindano: il multiforme provvedimento accontenta tutti. Nel dl ci sono «mance» elettorali e territoriali. Pensando alle regionali in Campania del 2025, il ministro alla Cultura Sangiuliano, e tutta Forza Italia, si sono intestati i fondi per i 2500 anni dalla fondazione di Napoli. Ma per Sangiuliano la rivendicazione diventa occasione per l’ennesima gaffe: «La nascita del Comitato nazionale Neapolis 2500 – dice il ministro – è un’iniziativa che ho fortemente voluto, è un doveroso riconoscimento alla storia di Napoli». Sulla quale però dimostra di essere confuso dato che sui social scrive: «Celebriamo i due secoli e mezzo» della città. Come nella migliore tradizione a farne le spese è il social media manager, di cui «sono state accettate le dimissioni».

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ELETTORALE AMERICANA. Il governatore del Minnesota, ex professore di liceo, che ha difeso aborto e diritto di voto. Ha invocato il cessate il fuoco a Gaza e l’ascolto dei cittadini arabo americani

Harris guarda a sinistra: il suo vice è Tim Walz Il governatore del Minnesota Tim Walz - Ap

«Weird», strano, strambo. È la parola che ha proiettato il governatore del Minnesota Tim Walz nelle prime linee della campagna elettorale democratica, fino alla scelta di Kamala Harris, ieri, di nominarlo suo vice nella corsa alla Casa bianca. «Non ci piace quel che è successo – aveva detto durante il programma Msnbc Morning Joe criticando le politiche repubblicane – per cui non possiamo neanche andare alla cena del Ringraziamento con nostro zio senza finire in qualche strano litigio». «È la verità, questi tizi sono proprio strani!»

DEFINIZIONE nata per ridimensionare l’aura di malvagia imbattibilità di Donald Trump e i suoi, «weird» è diventata virale sui social, è stata abbracciata dalla campagna elettorale dem, ripresa da Harris e perfino dal rivale più temibile di Walz nella rosa dei candidati alla vicepresidenza, il governatore della Pennsylvania Josh Shapiro.
La scelta di Walz non è però certo dovuta alla viralità di una felice trovata linguistica che fa infuriare il Gop («Non siamo weird» si è ridotto a dire di sé e del suo vice Trump), quanto a una scelta di campo desiderata e acclamata in particolare dalla sinistra del partito: si rallegrano Alexandria Ocasio Cortez – «un’ottima scelta» – e Bernie Sanders: «È un ex insegnante, coach di football e grande sostenitore dei sindacati», il presidente della Uaw (United Auto Workers) Shawn Fain lo ha citato come uno dei due favoriti del suo sindacato. Walz ha legiferato in favore di «pasti scolastici gratuiti, congedi familiari e per malattia, legalizzazione della marijuana e la protezione dei diritti riproduttivi», scrive Ilhan Omar su X. Congratulazioni anche da Barack Obama, Joe Biden, Nancy Pelosi e lo stesso centro del partito, fino alla destra: un messaggio di endorsement arriva dall’ex senatore dem, diventato indipendente, Joe Manchin.

NATO E CRESCIUTO in Nebraska, trasferitosi in Minnesota nel 1996, Tim Walz è l’”uomo bianco”, ammantato dall’aura di american dad e di pragmatismo rurale che spunta molte delle caselle di cui la campagna di Harris era evidentemente in cerca – anche se non viene da uno swing state o uno stato rosso: il Minnesota non vota per un presidente repubblicano dal 1972, e sotto il secondo mandato di Walz i democratici hanno conquistato sia il posto di governatore che Camera e Senato statali.

A lungo membro della Guardia nazionale e professore di liceo, Walz si avvicina alla politica già quarantenne: la sua candidatura al Congresso come deputato per un distretto rurale del Minnesota – che ha poi ricoperto per 5 cariche consecutive dopo aver strappato il seggio a un repubblicano – arriva nel 2006. Ex pupillo della National Rifle Association, che lo aveva insignito di una A, ha voltato le spalle alla tutela a oltranza del secondo emendamento dopo il mass shooting di Parkland, nel 2018, e da governatore ha sostenuto i controlli sul passato di chi cerca di acquistare un’arma. Ora la Nra «mi da delle F, e il mio sonno non ne è minimamente danneggiato», ha detto in un’intervista Walz.

«IL PIÙ GRANDE onore della mia vita», ha definito ieri la scelta di Harris. Che fino all’ultimo si pensava destinata ad appuntarsi su Shapiro (da cui è arrivato immediato l’endorsement per Walz): non è un dato di secondo piano che l’aspirante vice più vicino a Israele sia infine stato scartato, e non può che indicare un tentativo di avvicinamento alla comunità arabo americana che stava voltando le spalle al partito per il sostegno del governo alla guerra a Gaza. In merito, Walz non ha mai detto molto, ma si è schierato per il cessate il fuoco e ha invitato l’amministrazione Biden a prestare ascolto alla preoccupazione dell’ampia cittadinanza arabo americana di Minneapolis: durante le primarie democratiche, il Minnesota aveva espresso il 19% dei voti uncommitted – il voto di protesta contro il massacro nella Striscia – una percentuale perfino superiore al Michigan.

DURANTE il primo mandato di Walz da governatore, il suo Minnesota è stato teatro della miccia che ha catapultato Black Lives Matter sulla scena nazionale e globale: l’omicidio a Minneapolis di George Floyd. La destra critica Walz per non aver subito mobilitato la Guardia nazionale contro i manifestanti, la sinistra è giustamente più scettica del fatto che la Guardia nazionale sia stata infine chiamata a sedare con la forza la rabbia della cittadinanza per l’omicidio di un uomo inerme le cui ultime parole – I can’t breathe – sono rimaste scolpite nella storia del razzismo americano. Come nota The Intercept, anche l’approccio di Walz al movimento per la riforma della polizia e la giustizia innescato da Blm è stato ambivalente: a gennaio dell’anno scorso ha sostenuto il sindacato di polizia nella difesa dell’agente che aveva ucciso un altro uomo nero, Ricky Cobb II, dopo un fermo per una violazione stradale.
Dopo aver agevolmente rivinto la carica di governatore nel ’22, Walz si è però fatto campione di importanti misure progressiste, dalla protezione del diritto all’aborto alla tutela dell’accesso al voto; ha varato misure contro il cambiamento climatico e in favore dei migranti (una sua legge consente alle persone senza documenti di avere la patente).

IN CASO DI VITTORIA democratica a novembre, a rimpiazzare Walz alla guida del Minnesota sarà la sua vice Peggy Flanagan, della tribù degli Ojibway, che diventerebbe la prima nativa americana a ricoprire la carica di governatrice.
Le reazioni repubblicane che dipingono Tim Walz come un pericoloso «estremista di sinistra in stile San Francisco» (JD Vance) non si sono fatte attendere. Il suo diretto rivale Vance ha anche detto di avergli lasciato un messaggio di congratulazioni in segreteria. Intanto la campagna Trump dichiara ai quattro venti che una presidenza Harris/Walz «scatenerebbe l’inferno sulla terra». Weird

 

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LI FERMI CHI PUÒ. Nuovo discorso del leader sciita Nasrallah: «La risposta arriverà, da sola o collettiva». Raid reciproci al confine libanese-israeliano. Il Libano verso l’isolamento: pochi voli e con prezzi proibitivi. Si teme il bombardamento dell’aeroporto

Il discorso televisivo di ieri del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah foto Epa/Wael Hamzeh Il discorso televisivo di ieri del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah - Epa/Wael Hamzeh

«La nostra risposta arriverà, da sola o nel quadro di una risposta collettiva di tutti i nostri fronti». Chiude così il suo attesissimo discorso il capo supremo di Hezbollah, Hassan Nasrallah. «Hezbollah risponderà, l’Iran risponderà, lo Yemen risponderà e il nemico attenda, osservi e valuti ciascuna reazione. L’essenziale è che determinazione, decisione e capacità siano presenti».

NELLA PRIMA parte del discorso, cominciato alle cinque locali, proprio mentre l’aviazione israeliana rompeva per due volte il muro del suono su Beirut – prassi da parte di Israele per mettere pressione psicologica ai libanesi – Nasrallah si è concentrato sul ricordo di Fuad Shukr, il numero due del partito/milizia, «architetto della vittoria del 2000 e di quella del 2006», ucciso in un raid a Beirut una settimana fa, poche ore prima dell’eliminazione del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, a Tehran. I due assassinii sono un «successo israeliano che non cambia però la natura della battaglia».

Nasrallah torna anche su Majdal Shams, casus belli per l’uccisione di Shukr, ritenuto responsabile di aver dato l’ordine. Israele ha accusato Hezbollah (che ha sempre negato) di aver lanciato il missile che ha ucciso 12 tra bambini e ragazzi sul Golan occupato, ma mai riconosciuto territorio israeliano dalle Nazioni unite.

L’occasione è il ferimento ieri nella città israeliana di Nahariya, nord di Acre, di due persone, di cui una è grave. L’esercito israeliano ha ammesso che «un missile intercettatore ha mancato un target prima di cadere». Iron Dome aveva risposto a un attacco rivendicato da Hezbollah, mancandolo, sempre nella parte nord di Acre. Il ferimento era stato attribuito all’inizio a Hezbollah. «Hanno ammesso quello che è successo a Nahariya, ma non dicono la verità su Majdal Shams», ha commentato Nasrallah.

«STIAMO AGENDO con coraggio e cautela. (…) L’obiettivo di Hezbollah non è l’eliminazione di Israele, ma è prevenire l’eliminazione della resistenza palestinese e il fallimento della causa palestinese. (…) Chiediamo alla resistenza a Gaza e in Cisgiordania di dar prova di pazienza e fermezza. Chiediamo ai fronti del sud del Libano, dell’Iraq, dello Yemen di continuare a sostenere Gaza malgrado i sacrifici. Chiediamo ai paesi arabi di svegliarsi davanti al pericolo che minaccia la regione».

Rivolgendosi poi ai libanesi, o almeno a quella parte che specie negli ultimi anni ha fortemente avversato Hezbollah, come la destra conservatrice cristiana delle Forze libanesi, ha detto: «Hanno paura delle conseguenze di una vittoria di Hezbollah in questa battaglia. Dico loro che dovrebbero temere la vittoria del nemico (di Israele, ndr)».

Una giornata quella di ieri di attacchi violenti da una parte e dall’altra. In mattinata quattro miliziani del Partito di Dio sono stati uccisi. Hezbollah ha rivendicato un attacco con un drone alle Brigate Golani nel quartier generale di Egoz Unit 612 nella caserma di Shraga, a nord di Acre. Nel pomeriggio diversi villaggi della provincia di Bint Jbeil e di Tiro sono stati bombardati dall’aviazione israeliana.

In serata è stata colpita la cittadina di Kfar Kila, Marjayoune, il cui municipio era già stato abbattuto. Dieci razzi dal Libano in direzione della Galilea sono stati intercettati e si registrano incendi presso Kiryat Shmona. L’incertezza e l’instabilità stanno svuotando Beirut. Le ambasciate invitano i propri concittadini in via precauzionale a lasciare il paese.

Pochi i voli in entrata e poche le compagnie che fermano al Rafiq Hariri di Beirut, unica alternativa per chi voglia lasciare il paese, vista l’impossibilità di ingresso e di uscita via terra (a nord ed est c’è la Siria, ancora in guerra civile, a sud c’è Israele) e via mare (non ci sono più rotte commerciali da prima dell’esplosione al porto di Beirut del 2020).

LA PREOCCUPAZIONE di rimanere bloccati dentro (o fuori) è molto alta. I prezzi dei biglietti sono schizzati e sono proibitivi. Air France e Transavia, accodandosi ad altre, hanno esteso la sospensione dei voli fino al 13 agosto. La paura è soprattutto quella di un attacco israeliano all’aeroporto, che taglierebbe il Libano fuori dal mondo.

In serata Benny Gantz, ex membro del gabinetto di guerra israeliano, ha rilasciato un comunicato nel quale sottolinea il «bisogno di aumentare la pressione militare, in particolare distruggendo le infrastrutture del Libano. Sosterremo in pieno il governo se deciderà di prendere misure contro Hezbollah».

Continua il lavoro diplomatico e si moltiplicano gli appelli internazionali a un abbassamento della tensione. Si attende di capire l’impatto che avranno le risposte dell’«asse della resistenza» su Israele e come questi reagirà a sua volta

 

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FANNO PENA. Le commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera licenziano il testo governativo. Si suicidano altri due detenuti. Un uomo in sciopero della fame si è impiccato in cella a Biella, un altro nel bagno del Tribunale di Salerno. Il nuovo crimine della «rivolta» è perseguito sia negli istituti penitenziari che nelle strutture per rifugiati con protezione internazionale e minori stranieri non accompagnati

La sicurezza in 13 reati. Ddl senza correzioni in Aula a settembre Il carcere di Regina Coeli a Roma - Getty Immages

L’ultima possibilità di correggere almeno un po’ il furioso ddl governativo sulla «Sicurezza» nelle commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia della Camera, prima del suo approdo il Aula fissato per il 10 settembre, si è inabissata proprio mentre si registravano i suicidi di altri due detenuti – 65 dall’inizio dell’anno, a cui vanno aggiunti 7 agenti penitenziari: un uomo di 55 anni di origine albanese, in sciopero della fame per ottenere il trasferimento in un carcere più vicino ai suoi familiari, si è impiccato nella sua cella a Biella e un altro si è suicidato nel bagno del Tribunale di Salerno. Nelle stesse ore a Potenza un giovane migrante di 19 anni è morto nel Cpr, ucciso o per colpa di qualcuno – secondo la stessa procura che ha aperto un fascicolo – che non lo ha preso in cura, perché appena qualche giorno fa il ragazzo aveva tentato di togliersi la vita ingerendo pezzi di vetro. Paradossalmente però la macchina repressiva contro la protesta che si è scatenata subito dopo – «rivolta», secondo la «nuova fattispecie delittuosa» introdotta nel codice penale con l’articolo 18 del disegno di legge Piantedosi -Nordio-Crosetto – era perfettamente oliata.

NELLE COMMISSIONI l’opposizione ha tentato di ridurre il danno ma gli emendamenti hanno trovato un muro, e così nei 28 articoli del ddl Sicurezza compaiono ben 13 nuove fattispecie di reato più un certo numero di aggravanti, alla faccia del sovraffollamento penitenziario. E se all’articolo 18 ci si inventa il reato di rivolta in carcere, con pene da 1 a 5 anni di reclusione per chi non obbedisce agli «ordini impartiti» anche mediante «resistenza passiva», all’articolo 19 la stessa fattispecie si estende anche alle strutture di accoglienza per minori stranieri non accompagnati e per rifugiati titolari di protezione internazionale.

«Ho tentato di ricordare alla maggioranza di governo, in preda ad una furia ideologica, – riferisce la capogruppo M5S in commissione giustizia Valentina D’Orso – che i destinatari di questa norma sono soggetti liberi, non detenuti, ospiti di quelle strutture finalizzate all’accoglienza e all’integrazione. Come si può pensare che possano essere applicate anche a loro quelle

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MIGRAZIONI. Nel decreto dello scorso maggio la definizione segue una logica singolare

Il Bangladesh, l’ultimo arrivato tra i paesi che il governo Meloni considera «sicuri» La presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni e la ex premier del Bagladeshn Sheik Hasina in un incontro del luglio 2023 a palazzo Chigi - Ansa

Dopo 15 anni al potere e lasciandosi alle spalle almeno 300 manifestanti uccisi e 11mila arrestati nelle proteste contro il suo governo, la ormai ex premier del Bangladesh Sheik Hasina è fuggita in India dove potrebbe chiedere asilo, dice la Cnn. Se per assurdo lo facesse in Italia, la sua domanda sarebbe sottoposta a una «procedura accelerata». Dal 7 maggio di quest’anno, infatti, il Bangladesh è inserito tra i paesi di origine «sicuri».

Per i concittadini di Hasina, in pratica, l’iter per l’asilo segue un esame meno accurato, con tempistiche più rapide, in cui vale un ribaltamento dell’onere della prova: solo il richiedente, senza supporto della commissione, deve dimostrare la necessità che venga protetto. In base al dl Cutro, poi, queste persone possono essere detenute durante la procedura. Quelle salvate in alto mare rischiano di finire nei centri in Albania.

La prima lista di questo tipo è stata redatta in Italia nel 2018, da un decreto dell’allora ministro dell’Interno Salvini. Con il provvedimento del maggio scorso i «paesi sicuri» sono passati in un colpo da 16 a 22. Insieme al Bangladesh troviamo, tra gli altri, il Camerun – in cui lo stesso presidente governa dal 1982 – l’Egitto di Al Sisi o la Tunisia di Saied.

Questo nonostante la norma, che recepisce la direttiva procedure dell’Ue, stabilisca che uno Stato terzo può essere considerato sicuro non solo se sono assenti persecuzioni, torture, trattamenti inumani o degradanti, violenze indiscriminate o conflitti armati, ma anche se sono rispettate le principali convenzioni internazionali a tutela dei diritti fondamentali e se esiste un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni. In pratica: uno Stato è sicuro soltanto se vale lo Stato di diritto.

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Secondo il governo anche Egitto e Bangladesh sono paesi sicuri

Sul sito dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) si può leggere la scheda-paese alla base del giudizio sul Bangladesh. Si parla di scarsa indipendenza della magistratura, crescente autoritarismo, sparizioni forzate, esecuzioni extragiudiziali, torture, repressione delle opposizioni.

Perché, allora, la definizione di «sicuro»? Il ragionamento del governo italiano è singolare: gli oppositori politici fuggono prevalentemente nei paesi vicini, mentre i migranti che arrivano in Italia sono di carattere economico. È vero che, secondo l’Agenzia europea per l’asilo, nell’Ue il tasso di ottenimento della protezione tra i bangladesi è di circa il 4%, ma la legge italiana non fa riferimenti alla valutazione dei flussi migratori, parla solo della situazione dei paesi di origine.

«I bangladesi sono il gruppo nazionale più numeroso negli sbarchi di clandestini nel Mediterraneo, nei richiedenti asilo in Italia e nei beneficiari di nulla osta per lavoro subordinato», dice la scheda. Se fosse questo il vero criterio, o comunque la principale preoccupazione, alla base dell’inserimento nella lista non avrebbe nulla a che fare con il dettato giuridico

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