Controinvasione. L’ultimo tassello nella costruzione a cui il Cremlino lavora ormai da nove giorni lo ha sistemato ieri Nikolaij Patrushev, uno degli uomini più fidati di Putin, al punto da essere […]
L’ultimo tassello nella costruzione a cui il Cremlino lavora ormai da nove giorni lo ha sistemato ieri Nikolaij Patrushev, uno degli uomini più fidati di Putin, al punto da essere inserito tempo fa nell’elenco dei suoi possibili sostituti.
«Gli ucraini hanno pianificato l’operazione a Kursk con uomini della Nato e di servizi speciali dell’occidente», le parole dal consigliere presidenziale, uno che, dalla fine degli anni Novanta, ha attraversato ogni passaggio politico ai vertici del potere russo.
Elementi a sostegno della tesi ce ne sono, basti pensare all’ampio impiego di mezzi tedeschi, britannici, americani e canadesi nel corso di questa offensiva, oppure ai suggerimenti, ne ha parlato in settimana il New York Times, che gli Stati Uniti avrebbero avanzato ai loro interlocutori a Kiev: dimenticatevi del fronte, delle trincee, delle zone minate e fortificate; colpite i russi nel punto in cui sono più vulnerabili, ovvero sul loro stesso territorio.
Quel che è strano nelle parole di Patrushev, e più in generale nella risposta della Russia all’iniziativa ucraina, è la priorità che il Cremlino continua a concedere al lato retorico della questione rispetto al lato militare. Come se il controllo delle informazioni e della versione di stato da trasmettere ai cittadini fosse più importante di quello sui confini.Sul campo la risposta del ministero della Difesa e dei servizi segreti è parsa sin dal primo momento lenta, stanca, priva di convinzione. In dieci giorni gli ucraini sono riusciti a inchiodare l’esercito russo su un’area vicina ai mille chilometri quadrati facendo centinaia di prigionieri e occupando oltre ottanta insediamenti, come ha ribadito da Kiev il presidente, Volodymyr Zelensky. Nella cittadina di Sudzha hanno stabilito un posto di comando amministrativo-militare, proprio come i russi hanno fatto sinora nelle province dell’Ucraina. Nel vicino villaggio di Glushkovo ieri sono riusciti a distruggere un ponte, bloccando in una sacca circa settecento militari russi. Ma anziché risolvere l’emergenza, nella cerchia di Putin sembrano impegnati a mettere insieme una adeguata struttura teorica.
La lentezza militare sorprende anche gli alleati di Mosca. «Nel caso in cui qualcuno varcasse i nostri confini la risposta sarebbe immediata», ha assicurato il presidente bielorusso, Aleksander Lukashenko. Che ha poi aggiunto: «Noi di linee rosse non ne abbiamo». Un riferimento esplicito ai limiti sempre più misteriosi di cui Putin discute quando minaccia ritorsioni esistenziali ai nemici.
Ebbene, questa volta l’esercito ucraino ha rotto la sacralità dei confini russi fra le province di Sumy e Kursk, nel luogo in cui il mito vuole che i popoli slavi abbiano mosso i primi passi, fra le campagne che hanno segnato l’inizio della controffensiva sovietica in quella che in Russia è ricordata come Grande guerra patriottica. Come dire: la circostanza dovrebbe spingere il Cremlino a misure decise, eppure proprio adesso nessuno da quelle parti sembra avere intenzione di agire.
Una spiegazione bene informata di quel che avviene nella cerchia di Putin ha provato a fornirla la giornalista indipendente Yuliya Latynina. Secondo Latynina, Putin e il suo stato maggiore non hanno ceduto al comportamento più semplice. Ovvero spostare subito le truppe schierate nel Donbass, distribuirle fra Kursk e Belgorod, spegnere sul nascere il pericolo di una invasione a settecento chilometri da Mosca. Per ora si è deciso di stabilizzare il nuovo fronte con piccole unità, con squadre di specialisti, con un certo numero di coscritti, e di portare avanti nello stesso tempo la spinta nel Donbass.
L’obiettivo non sarebbe, quindi, almeno per adesso, impedire una presenza militare ucraina da questa parte del confine, ma semplicemente renderla inoffensiva. Perché il piano funzioni, però, è necessario che il flusso di armi e munizioni fra l’occidente e l’Ucraina rallenti, e che i governi della Nato non procedano con il via libera all’impiego degli aiuti militari più moderni sul territorio russo.
È proprio a questo punto che arrivano le parole di Patrushev. Una richiesta più che una denuncia, il cui esito può avere ripercussioni ben oltre il conflitto con l’Ucraina