GUERRA DI RETROVIA. Accordi simili sono sempre naufragati. Per Xi è però il modo di definirsi mediatore globale
Wang Yi con al-Aloul - foto Epa
L’ultima volta era successo a ottobre 2022, in Algeria. Stavolta accade in Cina, con Hamas e Fatah che non sono sole. Anche altri 12 partiti palestinesi hanno siglato la cosiddetta «dichiarazione di Pechino», un primo teorico passo verso quello che dovrebbe essere un governo di unità nazionale da formare dopo la guerra a Gaza.
L’ESECUTIVO cinese definisce l’accordo «storico», ma sarà il tempo a dire quanto è solida l’intesa raggiunta dopo tre giorni di negoziati riservati, visti gli innumerevoli fallimenti del passato: ad accordi su elezioni e governi di unità non è mai seguito nulla. Il tutto al secondo round di colloqui ospitati da Pechino dopo quelli dello scorso aprile. A officiare la cerimonia della firma è stato il ministro degli Esteri Wang Yi, capo della diplomazia del Partito comunista che nei mesi scorsi aveva definito la Cina «portavoce del mondo musulmano» sulla questione palestinese.
A guidare la delegazione di Fatah era il vice presidente del comitato centrale Mahmoud al-Aloul. Per Hamas l’alto esponente Mousa Abu Marzouk, che ha dichiarato: «Con questo accordo diciamo che la strada per completare questo viaggio è l’unità nazionale. Ci impegniamo a perseguirla e la chiediamo». In mezzo ai due Wang, che ha definito l’accordo il «punto più importante per il dopoguerra a Gaza» e ha proposto un approccio in tre fasi per risolvere la questione. Primo: cessate il fuoco «duraturo e sostenibile». Secondo: i palestinesi che governano la Palestina. Terzo: la Palestina membro a pieno titolo delle Nazioni unite, attuazione della soluzione dei due stati e una conferenza di pace «autorevole e di pieno respiro». Il passo avanti verso l’unità nazionale palestinese non piace a Israele, con il ministro degli esteri Israel Katz che attacca: «Invece di rifiutare il terrorismo, Abu Mazen abbraccia gli assassini e gli stupratori di Hamas, rivelando così il suo vero volto».
PER LA CINA è in ogni caso un successo diplomatico: conferma il ruolo di mediatore regionale per il Medio Oriente. Già l’anno scorso Pechino aveva ospitato i colloqui decisivi per l’accordo sul rilancio delle relazioni diplomatiche tra Arabia saudita e Iran. Il tutto dopo che nel dicembre 2022, tra i suoi primi viaggi all’estero dopo il Covid, il presidente Xi Jinping aveva co-presieduto a Riad il consiglio di cooperazione tra Cina e paesi del Golfo, portando a casa decine di accordi commerciali. Con l’intesa di ieri, i vantaggi d’immagine sono innegabili. Non sorprende il crescente attivismo cinese sulle crisi globali. L’ambizione di proiettare un’immagine da «potenza responsabile» è evidente da mesi, con la pubblicazione di una serie di documenti programmatici che hanno sistematizzato la visione del mondo cinese. Dopo la teoria, tocca alla pratica. E il passaggio è favorito dal caos americano. Tra l’annuncio del ritiro di Biden e il possibile ritorno di Trump, Xi è convinto che diversi paesi possano ritenere gli Usa imprevedibili e adottare un approccio più dialogante con la Cina.
UN SEGNALE importante è la visita del ministro degli esteri ucraino Dmytro Kuleba, per la prima volta in Cina dall’inizio della guerra. Resterà fino a venerdì per discutere «il ruolo di Pechino nel raggiungimento della pace». Obiettivo cinese è una conferenza di pace riconosciuta da entrambe le parti. Un progetto già sostenuto dal presidente brasiliano Lula e su cui, qualora Kiev desse segnali positivi, Xi potrebbe dare l’accelerata decisiva a cavallo del suo viaggio a Rio de Janeiro per il G20