AUTORITARIA e INCOSTITUZIONALE
Con la “riforma” del Senato e l’italicum, Renzi stravolge la Costituzione, nel segno dell’uomo solo al comando
di GIANNI FERRARA (costituzionalista)
da “Sinistra Sindacale” N. 8 www.sinistrasindacale.it
Una premessa è dovuta. Il Parlamento italiano è illegittimo perché eletto con un sistema elettorale giudicato tale con sentenza 1/2014 dalla Corte Costituzionale. In qualsiasi paese civile sarebbe stato sciolto. In Italia invece tale Parlamento legifera, anche in materia costituzionale. In perfetta coerenza con l’incostituzionalità che avvolge tutto l’ordinamento, il Senato ha approvato in prima lettura un progetto di legge che ne modifica la composizione, le funzioni ed il ruolo attribuitogli dalla Costituzione finora vigente. Contribuisce così a concretizzare un disegno. Un disegno eversivo della forma di governo e della forma di Stato e che stravolge l’identità della Repubblica. Eversivo non solo, e non tanto, perché il Senato perde il potere di concedere o revocare la fiducia al governo e conserva, assieme alla Camera, soltanto per alcune materie il potere legislativo: revisione costituzionale, ordinamento dello stato, leggi elettorali, referendum, minoranze linguistiche, organi di governo, comuni, trattati, estensione dell’autonomia regionale.
Il Senato perde quindi la funzione di deliberare sulla maggior parte dei disegni di legge, per i quali ha solo un potere di emendamento che la Camera dei deputati, provvista dell’intera potestà legislativa, può benissimo disattendere. Non tanto per queste menomazioni, la “riforma” del Senato è eversiva; lo è per gli effetti che esse producono sull’intero sistema costituzionale combinandosi con la legge elettorale, l’italicum.
Va intanto rilevato che la configurazione del Senato, approvata martedì 13 ottobre, si colloca fuori dei modelli di seconda camera esistenti nel mondo. In nessun paese, a sistema bicamerale, i membri del senato sono eletti dai consigli regionali “su indicazione” degli elettori, mediante listini abbinati alle liste che competono nelle elezioni regionali. È del tutto evidente, comunque, che “indicazione” non significa voto, e l’ambiguità della formula può permettere non poche e gravi distorsioni. Si aggiunga che
il numero dei consiglieri-senatori eletti in una Regione per ciascuna lista dipenderà dal numero dei seggi che spetterà alla lista, non dalle libere scelte degli elettori.
Riguardo poi alle nuove funzioni che il testo vorrebbe attribuire al Senato, il meno che si possa dire è che quelle “di raccordo tra Stato e gli altri enti costitutivi e tra questi e l’Unione europea” non risultano munite di strumenti. Né si desume in quale forma il Senato possa partecipare “alle decisioni dirette alla formazione ed attuazione degli atti normativi e della politiche dell’Unione europea”. Quanto mai oscura appare poi la formula con cui dovrebbe concorrere (ma con chi?) alla “valutazione delle politiche pubbliche e dell’attività delle pubbliche amministrazioni e alla verifica dell’attuazione delle leggi”. Il tipo di valutazione, il tipo di verifica, gli strumenti e gli effetti che produrrebbero sono lasciati alla più ampia ed arbitraria discrezionalità di un legislatore che non si prevede come particolarmente affidabile. Su di un altro piano, lascia infine più che perplessi l’attribuzione dell’immunità parlamentare ai consiglieri-senatori per la loro appartenenza ad un ceto politico rivelatosi non proprio esemplare.
La contrarietà alla riforma del Senato, prevista dal disegno di legge approvato il 13 ottobre, è motivata, come si è premesso, soprattutto dalla sua connessione all’italicum. Una legge elettorale, questa, che si fonda sul “premio di maggioranza”, pari a 344 seggi (24 in più della metà più uno dei 630 della Camera), e lo attribuisce al partito che ottiene il 40% dei voti. Qualora nessuna lista abbia raggiunto tale quorum, il premio sarà conferito, mediante ballottaggio tra le due liste più votate, a quella tra queste che avrà avuto un voto in più dell’altra, qualunque sia il numero di voti conseguiti in questa competizione: il 35, il 30, il 25% dei voti complessivi.
È del tutto chiaro che sia nel caso che una lista raggiunga il 40% di voti, sia che vinca il ballottaggio, non è ad una maggioranza che si attribuisce il “premio”, ma ad una minoranza, quella che ottiene un solo voto in più di ciascuna delle altre minoranze alle quali però si sottraggono i seggi che si assommano nel premio. Premio che costituisce comunque un privilegio, una appropriazione indebita di seggi che spetterebbero a tutte le altre liste che risultano essere numericamente la reale maggioranza.
Non è per caso che nessun altro paese europeo ammetta un tale capovolgimento della volontà del suo corpo elettorale, trasformando una minoranza in una maggioranza. Si aggiunga poi che le liste elettorali dei 100 collegi plurinominali avranno un capolista che sarà comunque eletto se la sua lista otterrà seggi. Questo significa che chi decide la composizione delle liste, che è di solito il leader del partito, oltre a scegliere tutti i candidati, sceglie pure chi di questi sarà comunque eletto se la lista ottiene seggi nei singoli collegi. Anche se sarà sopravanzato, quanto a voti di preferenza, da altri candidati.
Le conseguenze da trarre da questa descrizione sono incontestabili. Il leader di quel partito che ha scelto i candidati (e, tra questi, quelli da lui nominati come capilista), se all’elezione della Camera dei deputati la sua lista ottiene, anche con solo il 25% dei voti la maggioranza di 344 deputati, otterrà pure, oltre che il potere di governo, il potere legislativo, attraverso il quale anche quello dei contenuti delle sentenze, più quello di eleggere il presidente della Repubblica, tre giudici costituzionali, i membri laici del Consiglio superiore della magistratura. Snaturando così tutti gli organi di garanzia. Quella garanzia che avrebbe potuto frenare la degradazione autoritaria delle istituzioni cui mira e che sta realizzando Renzi, rinnegando quel principio di civiltà giuridica che è la separazione dei poteri, stravolgendo la Costituzione fino a sfigurare l’identità della Repubblica, da parlamentare in autoritaria, con un solo uomo al comando. Garanzia che un Senato diversamente configurato avrebbe potuto assicurare. Quello votato il 13 ottobre, no.