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Quale Europa? «Oggi, più che mai, sentiamo l’urgenza di impegnarci a promuovere e difendere i valori che ci hanno uniti in questi decenni: democrazia, pace, giustizia sociale e rispetto per l’ambiente», scrivono […]

Una manifestazione per la pace a Roma Una manifestazione per la pace a Roma foto Andrew Medichini/Ap

«Oggi, più che mai, sentiamo l’urgenza di impegnarci a promuovere e difendere i valori che ci hanno uniti in questi decenni: democrazia, pace, giustizia sociale e rispetto per l’ambiente», scrivono sindaca e sindaco di Firenze e Bologna, Sara Funaro e Matteo Lepore. Una nuova “piazza per l’Europa”, chiamata a raccolta per il 6 aprile, un giorno dopo la prima data annunciata (il 5 aprile) che si sarebbe sovrapposta con la manifestazione indetta dal Movimento cinque stelle a Roma. Ma qual è la posta in gioco? Quali sono gli obiettivi strategici? Quale il significato politico?

Stare in piazza, manifestare, protestare, sono anzitutto azioni che aumentano la “densità morale” delle società e che ne potenziano l’intensità e la complessità delle interazioni sociali. Si tratta di rituali che producono endorfine e quindi generano un senso di rassicurante piacere e soddisfazione in chi vi partecipa. Stare in piazza con altre persone è anzitutto una cosa piacevole. Del resto, anche la domenica del pedone può avere gli stessi effetti, così come assistere all’arrivo del giro d’Italia o partecipare a una qualche performance collettiva artistico-musicale.

La piazze piene chiamate a raccolta da giornali e sindaci vorrebbero essere qualcosa di diverso: nella narrazione invalsa dovrebbero avere una specifica capacità politica, richiamare un qualche modello di convivenza, tracciare una rotta de seguire, chiedere delle priorità d’azione. Non solo “mobilitazione nello spazio pubblico”, ma azione collettiva “per un obiettivo pubblico”. Per farlo, però, ci vorrebbero organizzazioni politiche capaci sia di mobilitare le piazze con parole d’ordine e scopi specifici, sia di raccogliere, organizzare, selezionare e convogliare le energie prodotte dalla mobilitazione in azioni politiche, fuori e dentro le istituzioni. Che rapporto c’è tra queste piazze e il voto dei partiti al Parlamento europeo sul Rearm Europe appena ribattezzato dalla Commissione Europea Readiness 2030? Sulla crisi produttiva del settore automobilistico? Sulla contrazione della sanità pubblica, sui salari fermi al paolo sull’ulteriore precarizzazione dell’Università e della ricerca?

La protesta collettiva, senza l’organizzazione politica, rischia di generare “bolle di partecipazione”, tanto piacevoli quanto inutili. Lo testimoniano le primavere arabe, come scrive Vincent Bevins in Se noi bruciamo (Einaudi 2024). Dal 2010 al 2020 siamo stati spettatori di un’eccezionale esplosione di proteste di massa che annunciava cambiamenti profondi verso modelli di società più equi, una politica più rappresentativa, un’economia nuova e all’altezza delle grandi sfide del mondo. Oggi, osservando retrospettivamente gli esiti di quelle “rivolte senza rivoluzioni”, non si può che constatare come nella maggior parte dei casi le cose siano andate diversamente. Le piazze di Tunisia, Egitto, Libia, Siria, Yemen, Bahrain, Algeria, Marocco e Giordania hanno agevolato cambi di regime che non hanno migliorato la situazione precedente. Anche il caso tunisino – l’unico dove c’era stata una transizione democratica relativamente riuscita – è tornato nel cono d’ombra dell’autoritarismo. Le proteste di massa apparentemente spontanee, coordinate attraverso i social media, organizzate in modo orizzontale e prive di leader formali e di meccanismi di selezione della classe politica, funzionano bene per aprire varchi, ma lasciano il vuoto. Sono “bolle di politica” mosse dalla rabbia, dall’indignazione, dalla paura e dal disorientamento che non alimentano una trasformazione più giusta delle società. Senza un raccordo organizzato tra piazze e politica, si ha solo “iperpolitica”, concetto che lo storico belga Anton Jäger (Iperpolitica. Politicizzazione senza politica, Nero edizioni, 2024) rimanda a un fenomeno in cui la politica diventa onnipresente e altamente spettacolarizzata, ma al tempo stesso svuotata di capacità trasformative reali.

La lezione più generale è che per creare effetti politici le piazze piene dovrebbero accompagnarsi a un’organizzazione mobilitante, una nuova forma della politica, che, anche partire da quelle piazze, avvii un percorso dove i gruppi dirigenti, le correnti e gli iscritti siano messi a confronto con le persone, l’associazionismo, i sindacati, le esperienze di cittadinanza attiva, gli intellettuali, le realtà di autogestione, i movimenti per i diritti, i lavoratori e le lavoratrici in sciopero o in cassa integrazione, gli esperimenti di innovazione sociale radicale nei territori. Come risultato minimo si potrebbe così arrivare a una più chiara comprensione delle differenze tra interessi, visioni e prospettive su quel significante vuoto che è l’Europa invocata da quelle piazze. Nel migliore dei casi, la speranza è che tale processo generi un nuovo oggetto politico che, anche senza un soggetto sociale omogeneo, riveli soluzioni possibili a problemi comuni.