15 Marzo Storie e provenienze diverse per fare insieme un pezzo di strada sono una ricchezza, sempre. Ma idee e soluzioni diverse nella stessa piazza per dire di volere la stessa cosa non lo sono
C’è un treno che corre verso una destinazione ignota, sicuramente pericolosa. Riesce a salire un uomo, vuole fargli cambiare direzione. Sale però anche un altro uomo, chiede che il treno acceleri e prosegua lungo la stessa strada, più veloce. A bordo c’è già un terzo uomo: vorrebbe semplicemente che gli altri lasciassero fare e rispettassero il viaggio per quel che è. Per lui è importante difendere il treno. Tutti e tre vogliono esserci su quel treno per provare ad averla vinta. Ma nessuno dei tre vorrebbe la compagnia degli altri due, di chi ha intenzioni opposte alle sue. Vale per il treno. Non per la piazza di domani a Roma, dove si troverà chi pensa che i paesi europei devono armarsi sempre di più e velocemente prepararsi a combattere, assieme a chi considera folle e pericoloso il piano di riarmo della Commissione e adesso anche del parlamento europeo e vorrebbe fermarlo. Ci sarà anche chi ne fa una questione di orgoglio: quest’Europa magari non è chiarissimo cosa sia e dove stia andando ma va difesa e lasciata andare.
Forse sbagliamo, non è giusto mancare di rispetto a chi decide di portare se stesso e se stessa in piazza per manifestare, e saranno tanti, e non vogliamo farlo, neanche nei confronti di quelli che credono che la risposta più efficace a una grande piazza ambigua sia una piazza contemporanea, più chiara ma inevitabilmente più piccola. Il problema non è infatti il gesto, è il movente.
La redazione consiglia:
Lettere al manifesto. Per quale Europa manifestare?Qual è il valore politico di una piazza piena, ma dove si può entrare a pieno titolo sia esibendo la bandiera della Nato che la bandiera della pace, la bandiera dell’Europa buona per coprire tutto ma non la bandiera del popolo palestinese che l’Ue non è riuscita a difendere nemmeno a parole, continuando ad armare Israele e i suoi «atti genocidiari»? Una piazza che potrà essere piegata in ogni direzione, perché una convocazione vuota lo rende legittimo.
Sarà così legittimo starci, in quella piazza romana, perché si è convinti che il welfare vada ancora tagliato per fare con gli armamenti quello che non si è fatto con la sanità o con la scuola, che sia adesso necessario dirottare i fondi di coesione dalle aree povere del continente ai missili e ai cannoni. Ma anche legittimo starci perché si è consapevoli che questa è una corsa verso il baratro. Essere presenti, perché decisi a incoraggiare gli ucraini a continuare la guerra: si può sconfiggere Putin e fare dispetto a Trump. O essere presenti perché convinti che la fine della guerra arriverà sempre e comunque troppo tardi.
Da quando la manifestazione di domani è stata lanciata da Michele Serra, non ci sono state solo le adesioni di diversi soggetti individuali e collettivi di tutto rispetto e con le migliori intenzioni, assieme a tanti altri con intenzioni pessime. Non ci sono state solo un paio di correzioni di tiro nella convocazione che però hanno aggiunto confusione, come per esempio stabilire che in piazza parleranno solo intellettuali e artisti e non partiti, sindacati e associazioni che così si sentiranno spiegare dal palco il motivo per cui sono lì. In pochi giorni si sono aggiunte anche nuove ragioni per dubitare che la bandiera dell’Unione europea in quanto tale possa essere un vessillo, l’unico, da sventolare orgogliosi. Il piano di riarmo comune ha smesso subito di essere comune: la fetta grossa è ognun per sé, altro che esercito europeo, e andrà ripagata, altro che spese sociali salvaguardate.
Invece l’unità, quella sì, c’è stata immediatamente sull’immigrazione, cioè contro i migranti mal accolti prima e malissimo adesso che stiamo diventando una caserma. Stringersi a coorte in Europa già si colora di tinte cupe, più cupe del blu con le stelle. La piazza di domani accoglierà così chi trova rassicurante che la più grande azienda di armamenti tedesca abbia fatto più contratti negli ultimi dodici mesi che nei precedenti quindici anni e si prepara a convertire le fabbriche di auto in fabbriche di carri armati, e chi ne è terrorizzato.
Chi considera un segno di autonomia continentale, o nazionale, riempire gli arsenali, e chi non dimentica che più del 90 per cento della spesa in armi dell’Italia va in favore di aziende degli Stati uniti (Trump non può chiedere di meglio). Chi è convinto, con Ursula von der Leyen, che gli investimenti in materiale bellico muovano l’economia e arricchiscano tutti, e chi ricorda che le munizioni, prima o poi, si usano.
Gli uni e gli altri saranno insieme domani e insieme saranno raccontati. Come? Lo vediamo ogni giorno, se persino il tentativo della segretaria del partito democratico di opporsi – tardivamente, timidamente, ma opporsi – alle scelte europee più ottuse e belliciste è stato raccontato come un gesto di pericolosa insubordinazione. Immediatamente circondato, ingabbiato, dal cordone dei responsabili. Un cordone vestito di blu e di stelline anche quello.
Storie e provenienze diverse per fare insieme un pezzo di strada sono una ricchezza, sempre. Ma idee e soluzioni diverse nella stessa piazza per dire di volere la stessa cosa non lo sono. Perché alcune di queste ricette gonfiano e non da oggi la rimonta delle destre, i nuovi fascismi, il ritorno della guerra. E altre continuano a offrire almeno una speranza di salvezza, anche per l’Europa. Compito nostro è tenerle distinte.