Fossa comune Migliaia di palestinesi affamati e stanchi manifestano contro la guerra puntando l’indice non solo contro Tel Aviv. Ieri 38 uccisi
Gaza. Palestinesi protestano a Beit Lahiya contro la guerra e Hamas – AP/Jehad Alshraf
I media palestinesi online spesso pubblicano foto dei centri abitati di Gaza per mostrare il contrasto tra il passato, prima del 7 ottobre 2023, e il presente, dopo i bombardamenti a tappeto israeliani. Cumuli di macerie e detriti si estendono là dove un tempo sorgevano case, strade, quartieri interi, e gli abitanti faticano a riconoscere i luoghi in cui hanno vissuto. Le immagini più recenti riguardano Al-Zahraa, una cittadina di recente costruzione, situata non lontano dal confine con Israele. Si distingueva per modernità e vivibilità, offrendo ai residenti una qualità della vita superiore alla media della Striscia di Gaza. Con l’inizio dell’offensiva israeliana, Al-Zahraa è stata subito spazzata via, ridotta a un deserto, come gran parte del territorio circostante. Il cosiddetto Corridoio Netzarim è stato in parte costruito dall’esercito israeliano sulle sue rovine, mentre gli abitanti, costretti alla fuga il 23 ottobre 2023, condividono il destino di centinaia di migliaia di palestinesi che ogni giorno lottano per la sopravvivenza tra carenza di cibo, acqua e rifugi di fortuna.
La situazione umanitaria nella Striscia è prossima al punto di non ritorno. «Niente cibo, niente acqua, niente medicine, nessuna fornitura dall’inizio di marzo», ha denunciato Juliette Touma, portavoce dell’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa). «La gente è esausta», ha sottolineato Touma, ricordando che prima della ripresa dei combattimenti, il 18 marzo, nella Striscia entravano centinaia di camion di aiuti ogni giorno. «Chiediamo il rinnovo del cessate il fuoco, il rilascio immediato di tutti gli ostaggi e un accesso senza ostacoli agli aiuti umanitari», ha aggiunto, denunciando la drammatica escalation delle vittime civili palestinesi: almeno 830 negli ultimi giorni, secondo il ministero della Sanità, per un totale che ha superato i 50mila morti dal 7 ottobre 2023. Ieri a Gaza si parlava ancora degli ultimi due giornalisti uccisi dai raid aerei israeliani: Mohammed Mansour, corrispondente del quotidiano giapponese Asahi Shimbun, e Hossam Shabat, dello staff locale di Al Jazeera. «Il mondo è distratto, segue altre crisi internazionali, ma qui a Gaza stiamo vivendo il momento più duro di questi 18 mesi di bombardamenti e stragi», dice al manifesto Amjad Shawwa, direttore di Pingo, il coordinamento delle Ong di Gaza. «Manca tutto», aggiunge. «Il blocco israeliano totale, iniziato il 2 marzo, sta portando alla disperazione un’intera popolazione».
Le manifestazioni in corso da inizio settimana a Gaza, con migliaia di civili in strada, secondo Shawwa «non sono solo contro Hamas, come riferiscono i giornali israeliani e stranieri. Si tratta di una protesta contro la guerra, contro Usa, Israele e Hamas, contro i governi occidentali e arabi e contro chiunque non muova un dito per fermare la distruzione di Gaza e del suo popolo». I palestinesi, prosegue, «chiedono la fine della guerra e dei massacri, e la chiedono a tutti. Perché vivere sotto le bombe di Israele, senza cibo, acqua, elettricità, né ospedali funzionanti, è impossibile».
Le proteste prendono di mira soprattutto Hamas, che controlla la Striscia. Iniziate all’inizio della settimana a Beit Lahiya, nel nord, dove Israele ha nuovamente intimato alla popolazione di evacuare e dirigersi a sud, si sono poi estese ad altre località, tra cui Shujayeh e Nuseirat. Per ora coinvolgono alcune migliaia di persone, ma potrebbero intensificarsi. Al movimento islamico viene rimproverata l’incapacità di garantire sicurezza e sostentamento. «Fuori, fuori, fuori! Hamas vattene!», hanno scandito i dimostranti a Beit Lahiya, in una delle proteste più significative. Un partecipante ha spiegato: «Sono manifestazioni spontanee contro la guerra, perché la gente è stanca e non ha un posto dove andare». Sui social media circolano video di cortei in varie località. L’analista Akram Attallah avverte che Hamas dovrebbe evitare di reprimere il dissenso, se non vuole che la protesta si allarghi. «La gente è esausta, ha perso tutto e ora chiede risposte», afferma.
Hamas sembra reagire con irritazione. Considera il dissenso un attacco alla legittimità delle sue scelte e delle sue azioni. Uno dei suoi dirigenti, Sami Abu Zuhri, ha accusato i manifestanti di essere «megafoni di Israele», insinuando che le proteste siano orchestrate dall’esterno. Un altro esponente di spicco, Osama Hamdan, ha attribuito direttamente a Israele l’origine delle manifestazioni, minimizzandole. Ma la sua posizione ha suscitato rabbia tra i manifestanti, poiché Hamdan non si trova a Gaza sotto le bombe, bensì in Libano. Dopo il cessate il fuoco entrato in vigore il 19 gennaio, Hamas aveva schierato migliaia di poliziotti e forze di sicurezza in tutta Gaza, ma la loro presenza armata si è notevolmente ridotta con la ripresa degli attacchi israeliani. Una scelta che, dopo oltre un anno e mezzo di massacri di civili, non trova più comprensione. «I nostri figli sono stati uccisi. Le nostre case distrutte», dice Abed Radwan all’agenzia Ap, precisando di essersi unito alla protesta a Beit Lahiya «contro Israele, la guerra, contro Hamas e le fazioni politiche palestinesi e contro il silenzio del mondo». Un altro manifestante, Ammar Hassan, chiarisce che gli slogan sono indirizzati contro Hamas perché «è l’unica parte che possiamo influenzare. Le proteste non fermeranno l’occupazione israeliana, ma possono influenzare Hamas».
Le tensioni interne si intrecciano con le divisioni politiche più ampie tra Hamas e il movimento rivale Fatah, che controlla in Cisgiordania l’Autorità nazionale palestinese (Anp) del presidente Abu Mazen. Fatah cerca di sfruttare le proteste per rafforzare la sua posizione a Gaza. È opinione diffusa che, accanto alle manifestazioni spontanee, altre siano state pilotate da attivisti e simpatizzanti di Fatah. Ieri, mentre a Gaza continuavano le proteste, un portavoce di Fatah ha invitato Hamas a «rispondere alla chiamata del popolo palestinese» e a considerare una transizione politica. Ma tra i gazawi non vi è fiducia nemmeno in Fatah, nell’Anp e in Abu Mazen.